Quella che prende forma in vista del 15 marzo non è una piazza genericamente europeista che si batte contro le estreme destre e per il sostegno all’Ucraina, come ce ne sono state altre nel recente passato. È, al contrario, una piazza che in nome della riaffermazione dei presunti valori europei avvalla e sostiene una folle corsa al riarmo. Questo avviene con i partiti del centrosinistra schierati al gran completo e con la partecipazione dei sindacati confederali, inclusa la CGIL. Il momento è grave. Serve un’immediata risposta antimilitarista e antimperialista, mettendo al centro l’indipendenza e la forza della classe lavoratrice, senza nessun cedimento all’europeismo liberale.


La decisione della presidenza Trump di sospendere con effetto immediato il sostegno militare all’Ucraina ha determinato una fortissima accelerata nel processo di pesante riarmo che ha investito i paesi dell’Unione Europea negli ultimi anni. Nel Consiglio Europeo del 6 marzo, paventando non meglio precisati rischi per la sicurezza e la prosperità dell’Europa, la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha messo sul piatto 800 miliardi per il riarmo in 4 anni, di cui 150 da finanziare attraverso un fondo comune europeo e la restante parte derivante dalla spesa per la difesa dei singoli stati membri (che verrà esclusa dal conteggio del patto di stabilità) e da investimenti privati. Si tratta di un balzo nella spesa dedicata alla guerra che non ha alcun precedente nella storia dell’Unione Europea e che avviene senza più alcun infingimento di sorta da parte delle classi dominanti europee: il programma si chiama infatti Riarmo Europeo.

Quanto avviene a livello comunitario segue e, a sua volta, fornisce ulteriore impulso all’aumento della spesa per armamenti e personale militare già in atto in tutti, o quasi, i paesi europei. La Danimarca, ad esempio, ha annunciato un piano per il riarmo di 7 miliardi di euro, mentre la Lituania si propone di portare la propria spesa militare al 6% del Pil entro il 2030. In un contesto di guerra non (ancora) guerreggiata, il più bullo di tutti, il presidente francese Emmanuel Macron ci sguazza allegramente, e mette a disposizione degli alleati europei lo scudo nucleare del suo paese. La Polonia nel frattempo annuncia l’intenzione di rendere ogni uomo adulto “in grado di fare la guerra”, portando la forza dell’esercito a 500 mila effettivi. Simili venti bellicisti soffiano anche in Gran Bretagna, dove la spesa per le forze armate salirà immediatamente al 2,5% del Pil per poi balzare al 3% nella prossima legislatura. Si tratta, come il premier laburista Keir Starmer ha orgogliosamente rivendicato, del più importante aumento a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Il caso più eclatante però, sia per la sua storia sia per la portata del riarmo in corso, è certamente quello tedesco. Mentre si dibatte ancora sulla composizione interna del futuro esecutivo dopo le recenti elezioni del 23 febbraio, la coalizione che con ogni probabilità guiderà il paese, quella formata dai cristiano-democratici della CDU/CSU e dai social-liberali della SPD, ha già trovato l’intesa per una spesa di ben 900 miliardi per potenziare le infrastrutture e le forze armate. Nello specifico, il cancelliere in pectore Friedrich Merz ha previsto un fondo speciale di 400 miliardi per la Bundeswehresattamente 4 volte quanto il governo di Olaf Scholz aveva varato dopo il febbraio 2022 – e altri 500 miliardi di investimenti nelle infrastrutture e nelle strutture logistiche. Tale spesa andrà ovviamente ad impattare notevolmente sul rapporto tra indebitamento pubblico e deficit strutturale, che a partire dal 2009 è protetto costituzionalmente in Germania. Detto altrimenti, il piano di riarmo tedesco deve passare dalla modifica della costituzione. Per questa serve però una maggioranza dei 2/3 al Bundestag. Il successo relativo di Die Linke a sinistra e di AFD sul versante di estrema destra, entrambe contrarie al piano di riarmo, rende però l’operazione impossibile in termini aritmetici. In barba alle più elementari norme della democrazia borghese, la volontà di Merz e dei sodali della SPD è quindi quella di sfruttare il precedente parlamento, che al momento rimane in carica, per portare a compimento il voto con il sostegno di liberali e, soprattutto, verdi.

Da questa panoramica emergono tre chiari elementi. 

Il primo è che il riarmo europeo, a differenza di quanto sostiene il centrosinistra in tutta Europa, non è in sostanzialmente in contrapposizione all’agenda Trump, che spinge per un forte aumento della spesa militare nei paesi NATO, ma dialetticamente la completa. Il ventilato isolazionismo statunitense, che riguarda non solamente il sostegno militare all’Ucraina, ma anche i dazi sulle importazioni, è quindi l’arma retorica che le classi dominanti europee utilizzano per dare avvio a quanto è assolutamente in linea con i desiderata di Washington. Questo – sia chiaro – non vuol dire, come sostiene il portavoce di PaP Giuliano Granato su X, che l’UE sia “una marionetta” di Washington, rivendicando “un’architettura europea della sicurezza”. L’Unione Europea, infatti, con i suoi trattati di libero scambio e le sue istituzioni finanziarie, ha permesso alle maggiori potenze del vecchio continente di soggiogare economicamente l’Ucraina, l’Europa centro-orientale e il Nord-Africa (Qui e qui per approfondire). La NATO  a guida USA non rappresenta allora una struttura a cui l’ ‘Europa’ è sottomessa, bensì è il cappello militare a sostegno del ruolo imperialista di quest’ultima. In altri termini, gli stati UE non subiscono obtorto collo i diktat pro-riarmo di Trump: semplicemente, soddisfano la richiesta USA di partecipare più direttamente alla difesa militare degli interessi imperialisti occidentali, che sono anche quelli di Germania, Francia e Italia. Chiedere un’ “architettura della sicurezza europea” come fa – vergognosamente – Granato  significa quindi rivendicare in maniera ancora più forte il ruolo dell’UE come blocco imperialista. 

In ogni caso – e questo è il secondo elemento che vogliamo sottolineare – è vero che la spinta alla creazione di un coerente blocco imperialista europeo prosegue a singhiozzo, mostrando di non essersi ancora pienamente sviluppata. Come reso chiaro dalle cifre sul riarmo, il grosso di questi investimenti sarà infatti di competenza nazionale e non comunitaria, creando effetti che potrebbero anche più impedire che favorire nel medio periodo la formazione di un esercito comune europeo. 

La terza tendenza, e più prettamente politica, è che non esiste alcuna linea di demarcazione chiara tra le varie famiglie politiche istituzionali. Fatte salve alcune rare eccezioni, il bellicismo – quando dichiarato, o quando apparentemente contestato – accomuna tutti. La discussione è sulle virgole, piuttosto che sulla sostanza. Il dibattito italiano chiarisce bene questo aspetto.

Il contesto italiano e la piazza del 15 marzo

I giornali legati al centrosinistra italiano parlano in queste ore di presunte spaccature nel governo di Giorgia Meloni in merito al piano di von der Leyen. Si tratta di una vera e propria caricatura del dibattito in corso nella maggioranza. Tralasciando il macchiettismo di Matteo Salvini, la sostanza che oppone Giancarlo Giorgetti, ministro dell’economia e vero baricentro politico della Lega, a Meloni non è sulla bontà o meno del riarmo. Al contrario, il nodo del contendere ruota attorno alla possibilità di conteggiare i fondi aggiuntivi spesi dall’Italia per le forze armate – si parla di 9 miliardi di euro già a giugno e qualcosa variabile tra i 30 e i 35 miliardi nel breve-medio periodo come titola il quotidiano di Confindustria Il Sole 24 Ore in data 7 marzo – all’interno del budget delle spese militari che la NATO ha espressamente chiesto di portare rapidamente (e solo come primo passo) al 2% del Pil – l’Italia è attualmente all’1,6%. Non è scontro politico. È banale geometria dei conti. In maniera simile, non esiste alcuna dialettica avversativa tra maggioranza e opposizione. Nelle sue recenti esternazioni, la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein si è guardata bene dall’attaccare la corsa al riarmo, criticando piuttosto le modalità. A suo dire, tutto ciò dovrebbe avvenire puntando “su investimenti europei finanziati dal debito comune, come in pandemia” e non attraverso “una serie di strumenti che agevolano la spesa nazionale”. In soldoni, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, tutto l’arco politico istituzionale è bellicista. La supposta diversità di posizioni tra Meloni e Schlein riguarda in gran parte i differenti orientamenti delle frazioni della borghesia che i due blocchi politici sostengono: una più legata allo stato nazionale nel campo della destra, una più favorevole alla creazione di un blocco imperialista europeo nel centrosinistra.

È in tale contesto che si deve situare la chiamata ad una piazza europeista lanciato da una delle figure più ignave del giornalismo italiano – l’editorialista di La Repubblica Michele Serra – per il 15 marzo a Roma. Da un punto di vista formale, la chiamata punta a rivendicare i presunti valori europei. Quali questi siano è assolutamente dubbio. Negli ultimi 500 anni, il principale lascito europeo e, più in generale, occidentale al mondo sono stati: saccheggi, schiavismo, guerre, conquiste, repressioni, e spoliazioni delle risorse economiche, umane e naturali. Basterebbe questa lista per rispedire l’appello al mittente. In maniera ancor più grave, però, la piazza è pronta a trasformarsi in un aperto sostegno politico al processo di riarmo in corso in Europa. Non importa con quali intenzioni si intende avvicinarsi a Piazza del Popolo, chi lo fa porterà acqua al mulino della guerra.

L’appello di Serra è stato immediatamente ricevuto dalle piccole forze centriste – dal gruppo di Carlo Calenda a Italia Viva di Matteo Renzi, fino a giungere ai radicali di +Europa. Anche il Partito Democratico sarà compattamente in piazza, mentre lo sfacciato bellicismo che si cela appena dietro alla chiamata crea problemi politici a Sinistra Italiana, costretta però a non distaccarsi in alcun modo dalla coalizione liberista a guida PD di cui fa parte. Una serie di organizzazioni – Scout cattolici, Legambiente, Comunità di Sant’Egidio, alcune sezioni dell’Anpi, per citarne alcune – e numerose personalità pubbliche – dal regista Paolo Virzì al filosofo Vito Mancuso passando per lo scrittore Antonio Scurati e per il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky – hanno già espresso la loro intenzione di essere presenti in piazza o di condividerne gli obiettivi. Anche le grandi organizzazioni del movimento sindacale dei lavoratori e delle lavoratrici saranno a fianco di Serra e degli altri guerrafondai. Lo fanno con argomentazioni di evidente cerchiobottismo. Le esprime al meglio il comunicato della Uil che rivendica la piazza come una possibilità “per abbandonare le politiche di austerity” e per rafforzare la difesa comune, migliorando il coordinamento “laddove siano presenti inefficienze di spesa”. La verità è diametralmente opposta. Non solamente l’idea che il rilancio industriale possa passare dal riarmo è aberrante da qualsiasi punto di vista la si possa guardare, ma le politiche di austerity si rafforzano e non si indeboliscono con il riarmo. Queste si tradurranno infatti in pesanti attacchi alla spesa per scuola, università, cultura, sanità, diritto all’abitare e via scorrendo. Inoltre, il bellicismo muscolare sul piano comunitario prepara e rafforza la stretta autoritaria domestica. Diritti politici e sindacali sono destinati a ridursi notevolmente, soprattutto nei settori economici ritenuti strategici. Lo abbiamo già visto con i trasporti. Altri e crescenti comparti si aggiungeranno. È una macchia infamante l’adesione a tale contesto per ogni organizzazione operaia. La leadership di Cisl e Uil ne porteranno lo stigma principale – cosa della quale, ovviamente, a loro non frega nulla. A queste si è infine aggiunta anche la CGIL. Il fatto che il segretario Maurizio Landini abbia preso un’iniziativa del genere senza consultare il principale organo decisionale del sindacato – l’Assemblea Generale – è un segnale del ridotto carattere democratico della CGIL e della volontà della leadership di giungere ad una decisione che vada contro una buona parte della base. Certo, ufficialmente il sindacato partecipa rivendicando un’Europa diversa, “di pace, lavoro e diritti”. E qui cade l’asino. Perché nel contesto dato non esiste Europa che non sia imperialista. Chi la vorrebbe comunità di pace e prosperità è in un’ultima istanza meno sincero di chi rivendica apertamente il riarmo. 

L’anti-militarismo come bandiera di ogni antimperialista

Non ci bagniamo mai nella stessa acqua, anche se immergiamo i piedi nello stesso identico punto. I fiumi, come la storia, scorrono. Qualsiasi analogia con il passato ha quindi un carattere che rimane, al massimo, limitato. La sensazione è comunque quella di trovarsi a metà strada tra il voto ai crediti di guerra del 1914 e le “radiose giornate di maggio” del 1915 che segnarono la legittimazione popolare del bellicismo della classe dominante italiana. Per ogni socialista appena degno del nome, esiste un’assoluta necessità di un pieno, frontale e aperto rifiuto del militarismo e del riarmo. Questo però non è sufficiente. E qui sta la differenza tra noi e quel variegato gruppo di forze – dal Movimento 5 Stella a Rifondazione Comunista, fino a giungere a Potere al Popolo – che vuole l’Europa unita, ma non un’Europa che spenda ai fini bellici. È banale dire che preferiremmo veder dedicati 800 miliardi di euro al welfare piuttosto che ad armamenti e soldati. Il punto fondamentale è però che l’imperialismo europeo non è circoscritto al solo apparato militare. All’opposto, questo sostiene la sottrazione di risorse dai paesi del Sud Globale che avviene primariamente attraverso la dominazione economica e tecnologica. Esiste una profonda ritrosia di tutta la sinistra politica istituzionale – e oltre, come abbiamo segnalato guardando alle posizioni imbarazzanti del leader di PaP Granato – a definire l’Unione Europea imperialista. E questo svela il carattere in ultima analisi nazionale di questi gruppi politici. Nella loro narrativa è l’assenza di acume politico, l’avidità di potere, la sete di profitto, o un qualche mix di questi fattori, a spingere le classi dominanti europee al riarmo. Nella nostra prospettiva questo è invece una conseguenza logica di un sistema economico che si basa sull’intrecciarsi della competizione economica e geopolitica. Il riarmo non è un errore di sistema. È il sistema ad essere sbagliato. 

A questo si devono aggiungere le attuali differenze presenti all’interno dell’Unione Europea, dove un ristretto gruppo di paesi dell’area occidentale drena costantemente risorse dalla periferia meridionale – Portogallo, Grecia e parzialmente Spagna – e da quella centro-orientale  (in sintesi, i paesi che erano nell’orbita dell’Unione Sovietica). Tali differenze, presenti come il prodotto di uno sviluppo diseguale all’interno dell’Europa, non solamente sono state riprodotte negli ultimi 30 anni, ma si sono consolidate per effetto dell’architettura istituzionale, finanziaria e monetaria dell’UE – quindi delle politiche neoliberiste e di austerità che essa ha favorito. Questo svela l’inconsistenza politica di chi parla oggi, all’interno del contesto dato, di un’Europa dei popoli. Senza una rottura con l’Europa capitalista, tali espressioni servono infatti solamente a riprodurre e promuovere un europeismo liberale che ingabbia, attraverso la cinghia di trasmissione delle organizzazioni sindacali di massa e (parzialmente) dei partiti di centrosinistra, la classe lavoratrice. Quando questa poi si scontra con i fallimenti sociali delle politiche sostenute da questo blocco politico-sindacale, tende a virare, anche e soprattutto per l’assenza di un forte e riconoscibile partito che incarni gli interessi e le aspirazioni operaie, verso le forze della destra reazionaria.    

La campanella ha suonato ripetutamente negli ultimi giorni. Le tendenze alla crisi e alla guerra creano steccati molto chiari e nitidi. La terra di mezzo va scomparendo. Anti-imperialisti da un lato, tutto il pittoresco carrozzone dall’altro. I primi sono però neve al sole senza la forza del movimento operaio. Convincere i settori più avanzati e strategici di questo che la guerra e il bellicismo è in fondamentale contraddizione rispetto ai loro interessi concreti è adesso una necessità vitale. Per fare ciò, si deve partire da una serie minima di rivendicazioni:

  • Battersi contro il militarismo, le forze liberali, e l’estrema destra;
  • Intensificare gli sforzi per creare un percorso di lotta contro il riarmo e che favorisca la politicizzazione di quei settori di classe lavoratrice che più di tutti subiscono la repressione legata all’economia di guerra – a partire quindi da ferrovieri, portuali e lavoratori della logistica coinvolti nello stoccaggio e movimentazione di materiale bellico;
  • Allargare la mobilitazione a quella parte del settore manifatturiero che è in procinto di virare interamente o anche solo parzialmente verso la produzione bellica;
  • Unire il fronte con il movimento per la Palestina, che si batte contro il genocidio di Israele e denuncia la complecità dei governi occidentali nel sostenerlo, con il movimento precario nelle università, e con tutti i lavoratori e le lavoratrici dei settori sociali che subiranno tagli per garantire la sostenibilità economica del riarmo;  
  • Rompere con l’Unione Europa capitalista e con la NATO;
  • Alla rivendicazione reazionaria del ritorno alla “sovranità nazionale” – ma anche alle utopie neo-riformiste per un’Unione Europea dei Popoli – contrapponiamo la parola d’ordine di una Federazione Socialista d’Europa. 

Gianni Del Panta

Gianni Del Panta, studioso di scienze politiche, vive a Firenze ed è autore di "L'Egitto tra rivoluzione e controrivoluzione: da Piazza Tahrir al colpo di stato di una borghesia in armi" (Il Mulino, 2019).