Questo scritto è servito come testo-base per la prima parte della discussione sull’imperialismo contemporaneo che si è tenuta alla Scuola Estiva della FIR-VDL, tra il 30 agosto e il 1 settembre 2024. Il punto di partenza è una ripresa dell’analisi leniniana impostata ne “L’Imperialismo” del 1916 (Lenin 1916), in cui il rivoluzionario russo interviene nella polemica interna al movimento operaio internazionale sul contenuto economico delle tendenze all’intensificazione del conflitto tra le grandi potenze dell’epoca, e i suoi risvolti politici.  

Sono passati 108 anni da quando l’opera è stata scritta, e attualizzarla non significa prenderne alcune generalizzazioni per giustapporle a nuovi fenomeni, come spesso si tende a fare. Bisogna invece estrapolarne il succo metodologico e teorico, ovvero la necessità di studiare come, all’interno di un’articolazione storicamente determinata del capitale monopolistico e dell’egemonia capitalistica a livello internazionale, lo sviluppo ineguale (e instabile) del capitalismo mondiale conduca a contraddizioni insanabili tra i rapporti di forza (geo)economici e quelli geopolitici, determinando in maniera decisiva le tendenze alla guerra e la lotta di classe.  

L’ “Imperialismo” non è, come spesso si dice, una “teorica economica dell’imperialismo moderno” – questo è l’aspetto sui cui il libro ha più limiti – ma l’analisi dei rapporti di forza tra classi a livello internazionale. Con questa chiave di lettura, analizziamo le “tre fasi dell’imperialismo”, da quella classica descritta da Lenin (che ricostruiamo sintetizzando i principali contenuti del libro del 1916), fino a quella contemporanea, ove cominciano a prevalere tendenze alla crisi e al ritorno dell’ipotesi di uno scontro armato tra grandi potenze. In questo solco, cercheremo di fornire le coordinate chiave delle tensioni tra USA, UE, Russia e Cina. 


Per Lenin l’imperialismo non è in primo luogo una politica, ma, nella sostanza, una fase di sviluppo del capitalismo; la fase in cui i processi di concentrazione della produzione e centralizzazione del capitale, identificati da Marx come premessa per la transizione al socialismo, hanno raggiunto piena maturazione. Questo il senso in cui va intesa la traduzione italiana del sottotitolo al libro del 1916: 

L’Imperialismo – fase suprema del capitalismo– o “fase più recente”, come una traduzione più letterale dal russo vorrebbe. Affermare che anche oggi viviamo nell’epoca imperialista, come 100 anni fa, non significa allora dire che i tratti specifici del capitalismo non siano più cambiati da un secolo a questa parte, ma che le forme del capitale monopolistico e finanziario sono diventate quelle egemoni nel modo di produzione a livello mondiale. Guarderemo successivamente come si siano modificate le figure di tale fenomeno nel quadro contemporaneo, con tutte le implicazioni politiche del caso. Ora soffermiamoci però sui contenuti principali del testo. 

Con il concetto di capitale monopolistico Lenin intende le imprese giganti che dominano interi settori, concentrando sempre più la produzione, centralizzando il controllo di un insieme di capitali più piccoli e accordandosi per la spartizione dei mercati. Un processo del genere coinvolge non solo l’industria, ma anche il credito. Le banche, da un lato fanno profitti sempre più elevati, grazie all’attività di intermediazione per il capitale monopolistico (emissioni di azioni, prestiti, operazioni di borsa varie). Dall’altro, esse non sono più semplici intermediari, ma hanno un ruolo direttivo nelle decisioni di investimento e nella produzione, costituendo un ristretto numero di attori enormi che ha a disposizione il capitale delle principali imprese di un paese: emerge la figura del capitale finanziario, fusione di capitale bancario e industriale. Di contro, gli esponenti dei monopoli industriali hanno sempre più peso nelle istituzioni finanziare, mentre cresce l’importanza della borsa per i loro profitti. La fusione tra il capitale finanziario e il capitale monopolistico dà vita alla frazione egemone della borghesia capitalistica nella fase imperialista: l’oligarchia finanziaria, che a sua volta è un tutt’uno con i vertici dello Stato.  

Marx aveva inteso i processi di centralizzazione e concentrazione come inevitabile risultato della competizione tra capitali e della tendenza alla crisi che essa genera. La nascita dei monopoli non significa però l’eliminazione di tale tendenza. Come sottolinea Lenin, se i monopoli cercano di regolare la concorrenza reciproca, non mettono fine all’anarchia della produzione. Anzi la amplificano. Essi, infatti, dominano il mercato controllando direttamente alcuni settori e subordinandone altri più frammentati e concorrenziali. Questo genera pressioni al ribasso sui profitti e i salari nel complesso dell’economia, insieme a una crisi cronica di domanda per lo stesso capitale monopolistico. Inoltre, l’enorme espansione della produzione industriale generata dalla concentrazione e dalla centralizzazione del capitale tende a rendere sempre più insufficienti le risorse agricole e minerarie nazionali, quindi ad aumentarne il prezzo, da cui una riduzione dei profitti industriali. Il capitale monopolistico e finanziario è costretto a cercare occasioni di investimento all’estero, e in particolare nelle colonie, dove il saggio di profitto è più elevato e vi sono ampie disponibilità di materie prime.  

L’esportazione di capitale è l’aspetto più caratteristico di questa fase, in cui i monopoli non si spartiscono più solo il mercato nazionale, ma anche quello mondiale, in espansione grazie alla stessa esportazione di capitale. I prestiti e gli investimenti internazionali verso colonie e semi-colonie creano infatti infrastrutture necessarie all’estensione dei rapporti di mercato, come le ferrovie; sono associati all’acquisto di merci dai paesi imperialisti che spazzano via l’artigianato locale ecc. Questo è il terreno su cui si svolge la conquista di immensi territori in Africa, Asia e in America Latina da parte delle potenze capitalistiche europee, assieme a Giappone e USA, nonché le tensioni geopolitiche e militari per l’ampliamento e la ridefinizione dei confini coloniali. 

Secondo Kautsky, il leader teorico del movimento socialista tedesco e internazionale dell’epoca di Lenin, in realtà, si tratterebbe di una situazione contingente: la concentrazione e la centralizzazione del capitale porterebbero a una tendenza alla regolazione pacifica dei rapporti capitalistici e tra potenze, fino alla creazione di un “super-imperialismo”. Al contrario, Lenin insiste sul fatto che, come sul terreno nazionale, anche su quello internazionale, l’emergere del capitale monopolistico intensifica l’ineguaglianza dello sviluppo capitalistico. Gli investimenti esteri, e l’integrazione nell’orbita del mercato mondiale delle società precapitalistiche con le conquiste coloniali, allargano enormemente il raggio d’azione del capitale. Questo apre spazi per l’emergere di nuovi centri di accumulazione (in particolare Germania, Giappone e Stati Uniti) accanto a quelli vecchi (Inghilterra e Francia). L’ascesa economica dei primi è però frenata da una ripartizione delle colonie che cristallizza l’egemonia dei secondi. In altri termini, le conquiste coloniali e lo scontro tra potenze non rappresentano una fase transitoria, ma il risultato dell’inevitabile contraddizione tra i rapporti di forza (geo)economici e quelli (geo)politici, strutturale allo sviluppo ineguale del capitalismo imperialista a livello mondiale.  

La critica a Kautsky è importante perché il diffondersi di idee come quelle del vecchio maestro di 

Lenin (solo successivamente “il rinnegato”) viene collegata agli effetti dello sviluppo dell’imperialismo sulle relazioni di classe e politiche interne agli stati più potenti. Grazie ai superprofitti imperialisti infatti il capitale monopolistico può rafforzare gli strati operai privilegiati su cui si appoggia la burocrazia sindacale e partitica riformista. Ecco che l’indagine delle “basi economiche dell’imperialismo” si rivela non solo funzionale a capire le cause delle tendenze all’espansione coloniale e alla guerra mondiale, ma anche a comprendere meglio il loro legame con la lotta di classe, per intervenirvi nell’ottica di rafforzare un soggetto rivoluzionario.  

 

Limiti e attualità dell’analisi dell’imperialismo di Lenin. Scambio ineguale, sviluppo ineguale e rapporti di forza tra classi a livello internazionale.  

Molti elementi dell’analisi qui riassunta possono suonare familiari, ma si tratta evidentemente di un quadro piuttosto calato sull’epoca in cui scriveva Lenin. Per Roberts e Carchedi (2022), manca nel libretto del rivoluzionario russo una vera e propria “teoria economica dell’imperialismo moderno”. Certo, Lenin fornisce i famosi 7 punti definitori, ma come egli stesso dice, si tratta di aspetti contingenti alla fase in cui scrive. Qual è la dinamica economica fondamentale dell’imperialismo, a prescindere dalle forme concrete che esso assume? Secondo Roberts e Carchedi è la lotta tra capitali per il monopolio tecnologico, che permette di appropriarsi della quota maggiore di plusvalore estratto dai lavoratori a livello mondiale. Il succo dell’oppressione imperialista, al di là delle particolarità storiche, è quindi lo scambio ineguale (si veda anche Amin 1977, Ricci 2021): mentre i paesi imperialisti, grazie alla leadership tecnologica, possono vendere le proprie merci al di sopra del loro valore, quelli dominati sono costretti a venderle al di sotto del loro valore, situazione che, drenando ingenti risorse da questi ultimi, li rende dipendenti finanziariamente. Da qui deriva la spoliazione diretta dei paesi dominati, ovvero l’enorme flusso di interessi e profitti rimpatriati ogni anno verso i paesi imperialisti, sul quale gli autori citati forniscono ampi dati. Inoltre, la lotta per il predominio tecnologico fa sì che gli investimenti in capitale costante (impianti, macchinari ecc.) aumentino più che proporzionalmente rispetto al plusvalore estratto, con il risultato di deprimere il saggio di profitto. Questo, a sua volta, esacerba il conflitto tra capitali e Stati per l’appropriazione di una quota crescente di plusvalore dai paesi dominati, fino a generare la possibilità della guerra mondiale.  

Roberts e Carchedi hanno ragione a sostenere che le leggi di movimento dell’accumulazione capitalistica e la logica dello scambio ineguale vadano incorporate nell’analisi dell’imperialismo. 

Tuttavia, l’obiettivo di Lenin non è quello di elaborare una “teoria economica dell’imperialismo moderno”, bensì fornire delle coordinate interpretative per l’azione. Questo equivale però a una visione molto più dialettica rispetto a quella di Roberts e Carchedi sullo stesso piano teorico. Per Lenin, infatti, la dimensione (geo)politica non è semplicemente quella su cui si sposta lo scontro tra capitali una volta esaurito quello tecnologico; al contrario è il livello di organizzazione decisivo dei rapporti di forza tra centri di accumulazione. Così la guerra mondiale non è il passaggio eventuale dalla lotta economica alla lotta politico-militare, ma l’acuirsi della contraddizione tra rapporti di forza mutevoli sul terreno economico e rapporti di forza geopolitici che cristallizzano una situazione ‘oggettivamente’ superata, ma concretamente superabile solo attraverso un intervento attivo che scateni uno scontro su larga scala tra potenze… O la rivoluzione

L’analisi dell’imperialismo è allora anche e soprattutto lo studio dei rapporti di forza tra classi sul piano delle relazioni internazionali: da un lato l’imperialismo espande i rapporti di produzione capitalistici a livello planetario creando una classe operaia mondiale, dall’altro, riproduce le basi per la divisione di quest’ultima, tramite la linea di faglia tra paesi dominanti e dominati, che si riverbera nei rapporti interni degli stati imperialisti, ad esempio, con il razzismo. Quest’ultimo è centrale, insieme a tutta una serie di meccanismi – in primis l’integrazione delle burocrazie sindacali nello Stato –  per assicurare agli imperialisti un blocco di sostegno più o meno attivo alle proprie politiche. Al contempo però le politiche imperialiste richiedono importanti aggiustamenti – economici, relativi ai blocchi storici e alle alleanze tra frazioni della classe dominante ecc. – che mantengono aperta la possibilità di una crisi nella governmentalità capitalistica.  

Un’attualizzazione dell’analisi di Lenin non consiste allora semplicemente nell’identificazione di categorie generali da riempire, al limite, di nuovo materiale empirico, ma nell’indagine di come l’organizzazione dell’imperialismo in una data fase determini il contenuto dello scontro tra capitali, e tra classi, quindi la contraddizione tra il livello economico e l’architettura (geo)politica a sostegno dei rapporti egemonici nel capitalismo mondiale. Nell’ottica di provare l’efficacia del punto di vista leniniano e comprendere le poste in gioco contemporanee è utile provare a sviluppare come si sia evoluto il sistema imperialista dal periodo classico in cui scriveva il rivoluzionario russo a oggi.  

 

La seconda fase dell’imperialismo: l’onda l’unga della rivoluzione d’ottobre, l’emergere del capitale monopolistico multinazionale e l’attenuazione dello scontro inter-imperialista.   

L’analisi di Lenin rimane in gran parte utilizzabile così com’è per lo scenario che porta prima alla Grande Guerra del 1914-18 e infine alla seconda guerra mondiale del 1940-45. In seguito a questi sconvolgimenti, sotto l’egida dell’egemonia USA che dirige la ricostruzione dell’Europa e del Giappone, si consolida ulteriormente il dominio dei monopoli sui mercati nazionali e regionali dei principali paesi imperialisti: nascono le imprese multinazionali, che non coinvolgono più solo alcuni settori, in particolare quelli delle risorse minerarie e dell’energia come al tempo di Lenin, ma anche i beni di consumo. A livello internazionale i processi di decolonizzazione, emersi sulla scia della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 e di quella Cinese del 1949, impediscono il controllo diretto da parte dell’imperialismo dei paesi dominati. I nuovi stati indipendenti spesso si formano come esito di “rivoluzioni permanenti” abortite, in cui la subordinazione dei Partiti Comunisti stalinisti alla burocrazia sovietica permette la presa del potere da parte di regimi bonapartisti, espressione di un’alleanza tra settori della borghesia nazionale, ceti medi urbani, piccoli proprietari contadini e proletariato (con la direzione dei primi). Lo scontro di queste alleanze con le classi fondiarie semi-feudali, principale appoggio dell’imperialismo nella sua forma coloniale, risulta in riforme agrarie (più o meno estese) e tentativi di industrializzazione per sostituzione delle importazioni (ISI), sostenuti da investimenti statali e misure protezioniste.  

È lo stesso successo di questo modello a riprodurre la supremazia dal capitale imperialista, o in termini leniniani, uno status semi-coloniale: da un lato l’ISI estende le relazioni capitalistiche e crea un mercato interno, ampliando le possibilità di investimento e di controllo delle economie dei paesi dominati da parte delle multinazionali. Dall’altro lato, tale industrializzazione dipende dallo scambio ineguale di materie prime contro macchinari dai paesi imperialisti, quindi dai prestiti e dagli investimenti di questi ultimi. Come per le politiche di espansione della domanda e dell’occupazione in occidente, la viabilità dell’ISI si basa allora sull’appoggio degli USA a un sistema finanziario internazionale basato sulla convertibilità dollaro-oro e il controllo dei movimenti di capitale, il quale riduce il margine di manovra del capitale finanziario a livello mondiale. A sua volta, questa architettura ha come premessa la fase di espansione materiale del capitalismo post seconda guerra mondiale ed esigenze politiche precise: in occidente, consolidare un blocco sociale basato sull’integrazione crescente del movimento operaio nello stato, contro la minaccia sovietica; nel mondo coloniale\semi-coloniale, evitare che i movimenti di liberazione nazionale aprissero spiragli per rivoluzioni socialiste. Queste stesse esigenze e la capacità di proiezione egemonica degli USA, nell’alveo della quale avviene un’integrazione crescente tra capitali in Europa, Nord America e Giappone, fanno sì che una caratteristica importante della fase sia un forte stemperamento dei conflitti inter-imperialisti, sulla base di un’attenuazione della contraddizione tra sviluppo ineguale e rapporti di forza (geo)politici nel capitalismo mondiale.   

La riattivazione della tendenza alla caduta del saggio di profitto dalla fine degli anni 60 in poi; l’insofferenza crescente da parte del capitale multinazionale e finanziario nei confronti del controllo ai movimenti di capitale a al protezionismo nei paesi dominati; il riemergere della lotta di classe in Occidente e nello stesso mondo semi-coloniale: tutti questi sono gli elementi che mandano in crisi il sistema imperialista post seconda guerra mondiale e impongono una ristrutturazione. Così, dopo aver sganciato il dollaro dall’oro e inaugurato un processo di liberalizzazione del sistema finanziario internazionale, negli anni 80 la banca centrale USA aumenta i tassi d’interesse e fa esplodere la crisi del debito in America Latina, Africa e Asia. Questo, segna la fine dell’ISI nei paesi dominati, costretti a privatizzare le industrie di stato e ad aprire le proprie economie a merci e capitali internazionali, mentre in occidente muove i primi passi la ristrutturazione neoliberista fatta di attacchi al salario diretto e indiretto. 

 

La terza fase dell’imperialismo: dominio del capitale monopolistico transnazionale e tendenze latenti al ritorno dello sviluppo ineguale.  

Con il crollo del Muro di Berlino e dell’URSS, a cui segue l’integrazione dell’ex blocco ‘socialista’ nel mercato mondiale, e i processi di liberalizzazione del commercio internazionale degli anni 90-2000, culminati con l’ingresso della Cina nel WTO, si perfeziona la terza fase dell’imperialismo. Raggiunge l’apogeo una nuova figura chiave del capitale monopolistico: le imprese transnazionali. Il loro aspetto distintivo è quello di disintegrare, e coordinare allo stesso tempo, interi processi produttivi su scala mondiale. I monopoli descritti da Lenin e le imprese multinazionali del contesto precedente tendevano invece a replicare produzioni verticalmente integrate nei vari luoghi di destinazione degli investimenti. Inoltre, il controllo delle filiere produttive transnazionali non avviene solo tramite l’esportazione di capitale, ma anche grazie a relazioni di controllo indiretto (‘arm length’) in cui l’impresa capofila governa una rete dispersa di fornitori ‘indipendenti’, più o meno piccoli e subordinati, grazie al monopolio sulle attività più innovative e sui mercati avanzati. Questo corrisponde all’inserimento dei paesi dominati in una “nuova divisione internazionale del lavoro” (o nelle cosiddette “catene globali del valore”), parallelo a processi di deindustrializzazione in Europa e negli USA, che contribuiscono a suggellare le sconfitte politiche della classe operaia avvenute in seguito alle lotte degli anni 70.  

Non tutti i settori e le produzioni sono però soggetti a delocalizzazione, mentre per la prima volta nella storia, con un processo produttivo che diventa realmente interconnesso a livello globale, emerge una classe operaia veramente mondiale. Al contempo, però, l’industrializzazione delle semi-colonie contemporanee rimane molto diversa da quella avvenuta storicamente nel centro imperialista, riproducendo una divisione importante tra i lavoratori del sud e del nord globali, in termini di condizioni di vita e sfruttamento. Va infatti sottolineato come nelle catene globali del valore i cosiddetti paesi emergenti e in via di sviluppo si concentrino in produzioni manifatturiere standardizzate e ad alta intensità di lavoro, mentre quelle più tecnologiche rimangono nell’occidente avanzato, situazione che genera un aggravamento della dipendenza dei primi dall’imperialismo. Per quanto l’ISI fosse vincolato all’importazione di tecnologia e ai prestiti internazionali, esso tentava di creare un’industria diversificata orientata al mercato interno. L’integrazione nelle catene globali del valore, al contrario, aumenta la specializzazione produttiva, quindi la dipendenza dalla tecnologia e dalla domanda controllate dal capitale monopolistico transnazionale. Così, l’inserimento di un numero crescente di paesi dominati nella nuova divisione internazionale del lavoro provoca una gara al ribasso di prezzi e salari che tende a sostituire lo scambio ineguale ‘prodotti industriali vs materie prime’ con quello ‘produzioni ad alto vs basso valore aggiunto’. Tuttavia, i limiti intrinseci di questo modello e il salto di qualità nello sfruttamento della natura dettato dall’emergere del capitale monopolistico transnazionale fa sì che la “vecchia divisione internazionale del lavoro”, basata sull’esportazione di risorse agricole e minerarie, rimanga ancora centrale per molti paesi dominati.  

Qualcuno potrebbe mettere in discussione la nostra analisi osservando come la Cina abbia beneficiato enormemente dell’espansione delle catene globali del valore. In risposta, va rilevato quanto, nel gioco a somma zero dell’imperialismo contemporaneo, l’ascesa del gigante asiatico abbia sostanzialmente portato alla rovina molte altre semi-colonie: un esempio è il crollo delle esportazioni tessili di paesi come il Marocco e la Tunisia verso l’Europa dopo l’apertura del mercato UE a Pechino nella prima metà degli anni 2000. Inoltre, è sbagliato sostenere che l’emergere delle catene globali del valore sia stato di per sé la chiave dell’ascesa economica cinese. Lo è stato invece l’eredità della rivoluzione del 1949, la quale ha permesso alla burocrazia del PCC di governare in maniera qualitativamente diversa l’ingresso nella ‘globalizzazione’, rispetto al resto dei paesi dominati. L’impostazione di un’economia pianificata ha infatti favorito uno sviluppo economico post-rivoluzionario non fondamentalmente dipendente dall’occidente come invece avveniva con l’ISI. Di conseguenza, l’élite cinese ha potuto negoziare in maniera relativamente favorevole l’apertura al capitalismo mondiale, riuscendo a mantenere una forte industria di stato e controlli sui movimenti di capitale, oltre ad ottenere trasferimenti di tecnologia dal capitale monopolistico transnazionale come contropartita per entrare nel suo enorme mercato.   

Spesso si dice che negli ultimi decenni vi sarebbe stato un cambio di paradigma epocale dal “capitalismo industriale” – buono – al “capitalismo finanziario” – cattivo, poiché svincolato dall’ “economia reale”. Un aspetto che rende più simile la fase contemporanea a quella di Lenin è invece proprio il ritorno in grande stile del capitale finanziario, e del suo ruolo – ben descritto dal rivoluzionario russo – di cervello del capitalismo. Lungi dal non avere più legami con la produzione, la gigantesca espansione della finanza a cui assistiamo oggi ha come base materiale l’immane centralizzazione ed espansione transnazionale del capitale monopolistico, all’interno di un quadro di libera circolazione di merci e capitali. Di converso, il capitale finanziario è fondamentale per dirigere i processi di ristrutturazione produttiva che assicurano l’ampliamento della sfera d’interesse delle imprese transnazionali alle economie dominate. Ad esempio, i bacini di forza lavoro a basso costo che attraggono gli investimenti esteri nei paesi del sud globale sono in buona sostanza garantiti da un’intensificazione dei processi di spossessamento dei contadini, associati a una crescente mercificazione della terra, in cui il ruolo della grande finanza è fondamentale. Da un lato, il ricatto del debito estero è alla base di vere e proprie contro-riforme agrarie; dall’altro lato, la tendenza all’aumento dei prezzi delle materie prime su spinta della speculazione di borsa è la causa di immani fenomeni di centralizzazione della proprietà terriera e la crescente subordinazione dei contadini della periferia ai giganti transnazionali dell’agroindustria (ne abbiamo scritto su La Voce delle Lotte 2017, si veda War on Want 2023). 

Sebbene la funzione della finanza non sia cambiata rispetto all’epoca imperialista classica, in virtù del suo raggio d’azione ormai senza precedenti, essa non rappresenta più solo un meccanismo di direzione, ma di vera e propria regolazione del capitalismo contemporaneo: l’estensione di massa del credito è infatti fondamentale per sostenere la domanda nel quadro di depressione salariale in cui il capitale ha risollevato il saggio di profitto dagli anni 70 in poi. Inoltre, il ricatto del debito a cui sono sottoposti sempre più vasti settori di lavoratori contribuisce in maniera essenziale ai processi di individualizzazione della classe operaia e quindi all’aumento del saggio di sfruttamento, tanto nei paesi imperialisti che in quelli dominati (dove forme di micro-credito sono importanti per sostenere il super-sfruttamento nelle catene globali del valore). Tuttavia, poiché nel capitalismo la tendenza al calo del saggio di profitto è radicata nella sovraccumulazione di capitale costante e non nella difficoltà ad estrarre plusvalore, la finanziarizzazione non solo non può arrestare la crisi, ma finisce per fare da acceleratore. L’enorme espansione delle borse degli ultimi decenni riflette in parte la necessità del capitale monopolistico e finanziario di rifugiarsi in operazioni speculative, a fronte della profittabilità declinante degli investimenti produttivi. Si forma perciò una massa di capitale fittizio (debito) enormemente sproporzionata rispetto alla capacità dell’economia reale di farvi fronte. Questa, in ultima analisi, è la contraddizione che ha scatenato il crack di Wall Street di 16 anni fa, e che non si è ancora appianata vista la profittabilità persistentemente bassa del capitale produttivo. 

Sul piano dell’organizzazione (geo)politica delle gerarchie capitalistiche tutti questi processi si svolgono sotto il cappello della supremazia militare senza precedenti degli USA. Essi, grazie alla funzione di moneta mondiale del dollaro, continuano inoltre ad avere un ruolo imprescindibile nel sistema finanziario internazionale che utilizzano per garantire all’ ‘occidente collettivo’ la possibilità di uno sfruttamento straordinario del resto del mondo e della forza lavoro globale. Sempre grazie all’egemonia del dollaro, gli Stati Uniti possono sostenere enormi deficit della bilancia dei pagamenti e continuare a rappresentare il principale motore della domanda mondiale, nonostante la deindustrializzazione associata al consolidamento del capitale monopolistico transnazionale (il quale comunque mantiene le sue basi a New York, Cupertino, ecc. e ha rafforzato la supremazia USA sulle attività tecnologicamente più avanzate).  In questo contesto, il conflitto inter-imperialista resta molto limitato, anche se la fine della minaccia sovietica e la riunificazione della Germania sviluppano una tendenza alla formazione di un polo imperialista europeo relativamente autonomo (sebbene in maniera estremamente contraddittoria e dipendente dal cappello militare di Washington). In questo solco, Parigi e Berlino dirigono il processo di creazione dell’Euro – con l’ambizione, o per lo meno la velleità, di contendere l’egemonia del dollaro – mentre si consolida una vera propria area semicoloniale per il capitale monopolistico transnazionale delle potenze UE (Italia inclusa) in Nord Africa ed Europa dell’est. Con una nuova ondata di espansione geografica del capitalismo, segnata dalla rinnovata incorporazione della Russia e soprattutto della Cina nel mercato mondiale, si riattiva infine la tendenza allo sviluppo ineguale, quindi all’emergere di nuovi centri di accumulazione e\o di potere globale, in virtuale contrasto con l’architettura imperialista vigente.  

 

Crisi della terza fase dell’imperialismo? Le coordinate dello scontro USA, UE, Cina e Russia. 

Come abbiamo già visto, sebbene per tutto un periodo l’integrazione della Cina sia centrale nell’assestamento post-1989 dell’imperialismo, il suo sviluppo recente avviene sin dall’inizio in relativa autonomia da quest’ultimo. Inoltre, dalla fine degli anni 1990 in poi si riafferma un blocco sociale coeso in Russia, con la leadership bonapartista di Putin e in virtù del ruolo chiave assunto dal paese nei mercati energetici, alimentari e delle risorse minerarie, nel contesto di impennata dei prezzi delle materie prime degli anni 2000. Mosca può ora fare leva sull’ingente arsenale ereditato dall’URSS per ristabilire il suo status internazionale, fortemente indebolito nel contesto di caos economico, sociale e politico post-sovietico.  

La grande recessione successiva ai crolli borsistici del 2008; la perdita di prestigio militare USA dopo il progressivo ritiro dall’Iraq nel 2009; i processi di sollevazione di massa che sconvolgono il quadro geopolitico del Medio Oriente (da dove Pechino importa il 60% del petrolio, ovvero la merce che più di tutte sostiene il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale): questo elenco riassume i processi che nell’ultimo decennio hanno segnato l’incrinarsi dell’egemonia USA, alla base dei meccanismi di riproduzione normale della terza fase imperialista. In questo quadro – colpita solo in parte dagli sconquassi economici mondiali – la Cina è sempre meno un bacino di forza lavoro a basso costo, e sempre più un attore che minaccia di contendere la leadership tecnologica dell’occidente. Nel frattempo, essa cerca di guadagnare maggiore autonomia nelle reti produttive globali e dal sistema finanziario a guida USA tramite i progetti infrastrutturali della Via della Seta, che vanno di pari passo a una prima internazionalizzazione dello Yuan, grazie ai prestiti ai paesi partecipanti. Intanto, i risvolti delle rivolte arabe in Siria permettono alla Russia di saggiare la sua capacità di proiezione militare e negoziazione con l’imperialismo, contro il quale comincia un confronto per l’influenza sull’Ucraina in seguito alla crisi di Maidan del 2014. L’esplosione del mercato elettronico e digitale durante la crisi COVID, infine, mette in evidenza la dipendenza ‘di ritorno’ degli USA dalle catene di fornitura delocalizzate in Cina, ma anche l’avanzamento del gigante asiatico nel settore dei semi-conduttori, in una situazione in cui Taiwan, ove si producono componenti critiche, è da sempre tra gli obiettivi militari di Pechino. L’ultimo tassello dell’attuale fase convulsa è evidentemente l’invasione Russa del Donbass nel 2022, a cui si aggiunge come ulteriore complicazione la possibilità dell’espansione di una guerra regionale in Medio Oriente dopo il 7 ottobre 2023.  

Come nell’epoca imperialista classica sembra riemergere con prepotenza la contraddizione tra rapporti di forza (geo)economici e (geo)politici, sul terreno dello sviluppo ineguale e della crisi del capitalismo – in altre parole: ricompare la tendenza alla guerra mondiale. Di fronte all’accresciuto ruolo della Cina e della Russia, gli USA non possono più governare il mondo in maniera unilaterale. Tuttavia, l’idea che possa emergere pacificamente un ordine internazionale multipolare è fondamentalmente sbagliata, con buona pace dei settori stalinisti che la sostengono. Abbandonare l’analisi di classe e affermare che si debbano appoggiare (più o meno criticamente) Putin e Xi-Jinping per favorire un riequilibrio del potere globale significa nei fatti sostenere la catastrofe nucleare. Compie però l’errore opposto chi vede in atto una sfida tra due campi imperialisti definiti che si contrappongono. Tale posizione, porta al propagandismo e all’incapacità di educare i militanti a “un’analisi concreta della situazione concreta” nello spirito leniniano. Questo nel migliore dei casi; nel peggiore, essa conduce al sostegno più o meno esplicito all’imperialismo occidentale, con la scusa che con la guerra in Ucraina l’aggressore, in questo momento, è la Russia.  

Sia Mosca che Pechino rimangono in realtà attori sostanzialmente subordinati nelle gerarchie del capitalismo mondiale, anche se il gigante asiatico mostra crescenti tratti imperialisti. Nessuna delle due, se non in settori circoscritti, ha infatti un capitale monopolistico transnazionale consolidato: dichiarare che la seconda è ormai imperialista perché tra le più grandi imprese mondiali della famosa lista di Forbes vi sono sempre più aziende cinesi vuol dire non avere capito nulla di cosa sia il capitale monopolistico oggi. Si tratta infatti per lo più di aziende e banche di stato concentrate sul mercato interno, non di imprese globali a capo di filiere transnazionali. Nel complesso, se la Russia ha un’economia fortemente distorta dalla specializzazione nelle materie prime, la Cina – pur avendo avviato avanzamenti spettacolari in produzioni di punta come le auto elettriche – rimane ancora dipendente dalla tecnologia occidentale, mentre le sue esportazioni, soprattutto in attività chiave come l’automobilistico e l’elettronica, sono ancora in buona parte sotto il controllo del capitale monopolistico transnazionale imperialista. Come mostrano Roberts e Carchedi (2022), Ricci (2021) e Li Minqi (2021), tutti con metodologie di calcolo diverse, non solo la Russia, ma anche la Cina, rimangono perdenti nello scambio ineguale con USA, UE e Giappone. Infine, bisogna considerare il ruolo assolutamente di secondo rango del rublo nelle gerarchie monetarie mondiali: non va dimenticato mai che il pil della Russia è simile a quello della Spagna! L’internazionalizzazione dello yuan è invece ostacolata dal fatto che Pechino mantiene un sistema finanziario relativamente chiuso, la cui liberalizzazione potrebbe avere effetti destabilizzanti vista la dipendenza ancora piuttosto significativa del modello cinese dagli investimenti esteri.  

Vi è quindi la contraddizione per cui la Cina potrebbe contendere l’egemonia mondiale solo ribaltando l’ordine internazionale basato sugli USA, ma la sua relativa debolezza sul piano economico le impedisce di coalizzare un blocco in grado di opporsi a questi ultimi. Solo un esito del genere potrebbe fare fronte all’immane superiorità militare degli Stati Uniti. In effetti, negli ultimi mesi sta progredendo il tentativo di Pechino di rafforzare ed estendere sotto la sua guida il cosiddetto gruppo BRICS, con l’ingresso di paesi come l’Arabia Saudita. Le economie emergenti coinvolte in questo progetto, in particolare Brasile, Sudafrica e India, e la stessa Arabia Saudita, rimangono tuttavia fortemente dipendenti dalla tecnologia, dal sistema finanziario e dal complesso militare-industriale a guida statunitense. Questo fa sì che il cosiddetto “blocco dei BRICS” abbia difficoltà strutturali a costituire, appunto, un blocco coeso e alternativo all’egemonia imperialista occidentale. Tale situazione è aggravata dal fatto che le difficoltà di internazionalizzazione dello yuan rendono impossibile sostituire pacificamente le istituzioni finanziare internazionali egemonizzate da Washington. Tant’è che tra le clausole dei prestiti internazionali cinesi vi è la garanzia di essere in grado di pagare quelli contratti con il Fondo Monetario Internazionale, come ha scoperto a sue spese la Tunisia negli ultimi anni (Kapitalis 2024)

Uno degli effetti più significativi della guerra in Ucraina è stato l’affermarsi di un crescente allineamento economico e geopolitico tra Russia e Cina. Al contempo, però, l’avventura di Putin ha anche favorito il compattamento USA-UE sotto l’ombrello NATO. Va sottolineato come questo non sia semplicemente il risultato della mentalità subalterna dei dirigenti europei ai centri di potere statunitensi, una tesi che va per la maggiore tra i settori pacifisti progressisti. Al contrario, gli imperialisti UE condividono con quelli nordamericani (e giapponesi) l’interesse di fondo a difendere l’attuare ordine internazionale che ne garantisce la supremazia tecnologica e finanziaria, a fronte dello sviluppo ineguale – e combinato – cinese (su questo concetto applicato alla Cina si veda Rolf 2021). Detto ciò, settori della borghesia francese, tedesca e italiana si stanno domandando se non sia necessario aumentare la propria “autonomia strategica”. Questo, in un momento in cui l’allineamento a Washington sempre meno è ottenuto tramite il consenso multilaterale e sempre più è il portato di una strategia che fa leva sulla dipendenza militare del ‘vecchio continente’ dagli Stati Uniti, tramite la destabilizzazione dell’area di influenza semicoloniale dell’UE (chiave di lettura che spiega almeno parte delle ragioni dei conflitti in Ucraina e in Medio Oriente). Riflessioni del genere sono del resto sempre più assillanti di fronte alla prospettiva di una nuova presidenza Trump, il quale nell’ultimo mandato aveva impostato misure protezioniste contro l’industria europea e chiesto maggiori sforzi per aumentare le spese militari. Il tycoon repubblicano aveva inoltre fatto saltare gli accordi sul nucleare con l’Iran, contribuendo al caos geopolitico odierno e facendo saltare decine di miliardi di euro di commesse per Germania, Italia e Francia, con il ristabilimento delle sanzioni a Teheran. 

 

Nella sostanza, l’autonomia strategica UE vuol dire maggior controllo da parte di quest’ultima sulla propria area d’influenza, quindi maggiore oppressione e sfruttamento sui lavoratori nordafricani ed est europei. Il rafforzarsi di un’opzione del genere, peraltro, non rappresenterebbe nessuna garanzia di riduzione delle tensioni geopolitiche, visto che la Russia insidia direttamente le zone semi-coloniali di interesse europeo; almeno quanto la Cina promette di minacciare il primato europeo nell’industria automobilistica, ove il capitale monopolistico transnazionale franco-tedesco (e in subordine italiano) arranca nella battaglia per la transizione elettrica. Punti di vista che rivendicano un ruolo più attivo per l’Unione Europea in ambito politico e diplomatico vanno allora denunciati come “un’utopia reazionaria” (Lenin 1915), subalterna ai progetti di rafforzamento di un blocco sociale pro-imperialista, non meno degli atteggiamenti più apertamente filo-USA. Non è un caso che Melenchon – tra i principali assertori da sinistra di posizioni del genere – abbia ritenuto che non fosse poi una questione di principio così fondamentale quella dello stop al sostegno militare all’Ucraina, prima di decidere di fare fronte comune con i social-liberisti filo-imperialisti del Parti Socialiste.  

 

A mo’ di conclusione. L’iniziativa dell’imperialismo a fronte di segni di debolezza nell’economia cinese.  

L’ascesa economica delle Cina e la guerra in Ucraina fanno apparire Pechino e Mosca come gli attori internazionali più assertivi e aggressivi. In base a quanto detto fin qui, bisogna però relativizzare una percezione del genere e non perdere di vista l’iniziativa dell’imperialismo. Non va dimenticato come la guerra in Ucraina sia radicata nell’espansione della NATO e dell’area di influenza semicoloniale dell’UE in Europa dell’est e nello spazio post sovietico. Gli aiuti militari all’Ucraina ammontano inoltre ormai a svariate decine di miliardi di dollari, mentre un governo europeo dopo l’altro approva aumenti alla spesa militare. Passando alla sfida cinese, se Trump ha segnato un cambio di passo, Biden lo ha accelerato. Sono sue infatti le misure protezioniste più forti sui semiconduttori, come il divieto di esportare in Cina comminato alla ASML, l’impresa olandese leader nei macchinari per i microchip più avanzati (quelli necessari all’intelligenza artificiale). È di luglio, invece, la notizia dell’aumento dei dazi all’acciaio cinese nell’area ex-NAFTA (North Atlantic Area Free Trade Agreement: USA-Messico-Canada), con un restringimento delle regole d’origine sui prodotti importati, proprio in chiave anti-cinese. 

Infine, le politiche di aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve vanno interpretati anche come tentativo di ipotecare l’egemonia del dollaro e peggiorare l’indebitamento dei paesi dominati per rafforzare la presa delle istituzioni finanziarie internazionali a guida Washington e del capitale finanziario del blocco imperialista, a fronte dei tentativi da parte di Pechino di aumentare la sua influenza finanziaria su vari paesi africani e del sudest asiatico. Infine, la Bidenomics, basata sul forte sostegno pubblico ad investimenti negli Stati Uniti, ha favorito una sensibile riduzione della quota di importazioni dal ‘dragone’, che sono passate dal 20% del 2017 al 17% del 2022 (dati OEC).  

Ha certamente ragione Michael Roberts (2024) quando sottolinea come la riduzione dei tassi di crescita cinesi degli ultimi anni vada commisurata con la sostanziale stagnazione dei paesi occidentali. Tuttavia, si tratta di un rallentamento pari al dimezzamento dal 10 al 5% degli aumenti del PIL in un decennio; dato significativo per un paese il cui reddito pro capite resta meno di un quarto di quello degli Stati Uniti. Sulla scia della crisi mondiale, dal 2012 in poi la componente che incide di più su questo trend è il calo del contributo positivo del commercio estero. La risposta del PCC è consistita nello stimolo di una vera e propria bolla immobiliare, tramite investimenti pubblici, espansioni monetarie e deregolamentazione del credito. I crack di Evergrande e Country Garden, i principali operatori di real estate del paese, segnalano una difficoltà seria per la sostenibilità di un modello del genere. Questo mentre il protezionismo e la riorganizzazione delle catene del valore dirette da USA e UE (la quale in primavera ha messo i dazi sulle auto elettriche Made in China) stanno avendo un ruolo nel deprimere ulteriormente le esportazioni cinesi, come suggerisce il calo di un terzo del surplus commerciale tra il 2022 e il 2023 (dati World Bank).  

Le implicazioni delle difficoltà economiche di Pechino sono ancora tutte da valutare e in buona parte da scoprire. A tal proposito è di un certo interesse lo stimolo di Wolfgang Streeck (2024) per cui l’esito più probabile dell’attuale contesa inter-capitalistica potrebbe essere il ritorno della “legge di Tucidide”. Secondo lo studioso, il blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti attaccherà la Cina – o la provocherà fino a obbligarla a combattere una guerra per cui non è pronta – sfruttandone la debolezza relativa, come Sparta con Atene nella guerra del Peloponneso. 

Per concludere, va detto chiaramente come un’analisi che ridimensiona la sfida posta da Cina e Russia alle attuali gerarchie capitalistiche mondiali non equivale a un sostegno critico nei loro confronti rispetto agli imperialisti occidentali. Pechino, e in subordine Mosca, non sono piccoli paesi post-coloniali con deboli borghesie nazionali che lottano per consolidare un capitalismo domestico contro l’imperialismo. Si tratta invece di Stati potenti ove la borghesia è saldamente al potere e mira a negoziare aree di influenza nell’attuale ordine imperialista, a scapito del proletariato internazionale e nazionale. In particolare, il tentativo di scalare le catene globali del valore significa che la Cina deve estendere le reti di fornitura dominate dal proprio capitale nel sudest asiatico, quindi aumentare l’oppressione dei lavoratori in Vietnam, Indonesia, Myanmar ecc. Di converso, un cambio del profilo produttivo da settori a basso-medio valore aggiunto ad attività più tecnologiche equivale a un attacco diretto all’attuale composizione di classe cinese, al centro di un importante ciclo di lotta (anche se solo economica) nell’ultimo decennio e mezzo. Questa tendenza non è solo un’ipotesi: come ha mostrato lo studioso Boy Luthje (2022) la transizione alla mobilità elettrica in Cina sta segnando importanti licenziamenti nel settore automotive tradizionali, dove erano avvenuti rilevanti processi di mobilitazione. Legare la lotta all’ ‘economia di guerra’ – attraverso cui la borghesia risponde alla stagnazione del saggio di profitto e alla crescente competizione geopolitica – con la solidarietà e l’unità della classe lavoratrice a livello internazionale non solo è cruciale, ma è anche possibile. Lo scenario è infatti quello in cui le tendenze alla crisi e alla guerra si intrecciano sempre di più con quella alla rivoluzione, come mostra il proliferare di rivolte di massa nella periferia capitalista e la ripresa di processi di protagonismo conflittuale della classe lavoratrice nel centro imperialista.

 

Lorenzo Lodi

 

 Questo articolo è comparso nel numero 8 di Egemonia, la rivista quadrimestrale di approfondimento teorico e politico de lavocedellelotte.it. Scrivici a redazione@lavocedellelotte.it, o sui nostri social (ig: lavocedellelotte, Fb: La Voce delle Lotte), per acquistare una copia cartacea della rivista.

 

Bibliografia

Carchedi G & M Roberts (2022) Capitalism in the 21st Century: Through the Prism of Value. London: Pluto. 

Economics for Tunisia (2024) “China-Tunisie: les prealables à une cooperation efficace”. Kapitalis. Disponibile a: kapitalis.com/tunisie/2024/01/22/tunisie-chine-les-prealables-a-une-cooperation-efficace.

Lenin V (1915) “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa.”Sotsial-Demokrat, 44.

Lenin V (2020)[1916] L’Imperialismo, fase superiore del capitalismo. Napoli: La Città del Sole. 

Li M (2021) “China: Imperialism or Semi-Periphery?”. Monthly Review, 73(3).  

Lodi L (2017) “Aiutiamoli a casa loro… Per sfruttarli meglio”. La Voce delle Lotte.

Luthje B (2022) “Foxconnisation of Automobile Manufacturing? Production Networks and Regimes of Production in the Electric Vehicle Industry in China”. Teipen C. et al. (eds), Economic and Social Upgrading in the Global Value Chains. London: Routledge. 

Roberts M (2024) China and the Experts.

Ricci A (2021) Value and Unequal Exchange in International Trade. London: Routledge. 

Rolf S (2021) China’s Uneven and Combined Development. London: Palgrave MacMillan. 

Streeck W (2024) “The Eu at War : After Two Years”.Society, 61: 385-392.

War on Want (2023) http://waronwant.org/sites/default/files/2023-02/Profiting from hunger PDF download.pdf.

 

 

 

 

Nato a Brescia nel 1991, ha studiato Relazioni Internazionali a Milano e Bologna. Studioso di filosofia, economia politica e processi sociali in Africa e Medio Oriente.