Il futuro del clima dipende in primo luogo dalla velocità con cui saranno ridotte le emissioni di gas ad effetto serra nei prossimi 10-20 anni (CO2 in primis).

Gli scenari futuri di emissione (Percorsi Socioeconomici Condivisi, SSP in inglese), su cui si basano le proiezioni climatiche dell’ultimo report IPCC (il gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico), sono prodotti dai cosiddetti Integrated Assessment Models (Modelli di valutazione integrata, IAMs), ovvero modelli che legano la dinamica socio-economica alle emissioni di gas climalteranti. Si tratta in gran parte di sistemi basati sui modelli neoclassici di equilibrio economico, e non sono in grado di spiegare la crescita economica, il consumo di materie prime e l’efficienza energetica, che sono invece imposti come parametri esterni.

È importante sottolineare la natura ideologica che sta alla base della descrizione degli scenari futuri dei  report IPCC, anche per immaginare nuove e più ambiziose prospettive ecologiche.


Riteniamo infatti che una critica alla pretesa oggettività di questi scenari, che non hanno alcuna capacità predittiva, sia fondamentale per decostruire la narrazione dominante in ambito accademico, ovvero che la transizione sia sostanzialmente una questione tecnologica, piuttosto che politica. Tale narrazione si basa su ipotesi che non sono ad oggi supportate dai dati: ad esempio l’ipotesi del ‘decoupling’ (disaccoppiamento) tra crescita economica ed emissioni di CO2 o l’ipotesi di un social tipping point (punto di svolta sociale) tecnologico che permetterebbe una rapida transizione da economia fossile ad economia green.


Crediamo, infine, che sia cruciale considerare modelli e scenari alternativi da quelli descritti qui e che il mondo accademico investa il suo impegno nell’esplorare nuove possibilità, a partire da una critica oggettiva delle proposte esistenti ed in definitiva una critica alla società capitalista.


Le dimensioni della crisi eco-climatica

Ormai è un’evidenza: l’emissione in atmosfera di gas “ad effetto serra” dovuta alle attività umane sta causando un cambiamento repentino del clima a livello planetario. Su tutti, l’anidride carbonica (CO2) che deriva dalla combustione dei fossili (gas naturale, petrolio, carbone). 

Come era stato correttamente predetto dalla nascente fisica del clima oltre 40 anni fa, ci troviamo oggi nel pieno della crisi climatica. Rispetto alla seconda metà del XIX secolo, presa come riferimento dell’epoca pre-industriale, la temperatura media superficiale del pianeta è aumentata di oltre 1.2°C, segnando una netta accelerazione negli ultimi 20 anni. L’ultima decade ha polverizzato qualsiasi record precedente e il 2023 è stato incoronato come anno più caldo di sempre con ampio margine, sfiorando la soglia critica di 1.5°C di riscaldamento. Al di là del concetto, piuttosto astratto, di temperatura media globale, sappiamo (e vediamo già oggi) che il cambiamento climatico porta con sé molteplici conseguenze concrete, con impatti che variano nelle diverse regioni globali: ondate di calore sempre più intense, aumentata frequenza e intensità di eventi estremi, piogge record e inondazioni, siccità prolungate, incendi, scioglimento dei ghiacci marini e dei ghiacciai montani. 

Da tempo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha identificato la soglia di 1.5°C come ultima soglia relativamente sicura, oltre la quale il rischio che si presentino dei cambiamenti irreversibili in alcune componenti del sistema Terra aumenta considerevolmente. L’esempio più concreto è quello delle grandi calotte glaciali di Groenlandia e Antartide, che già oggi si stanno sciogliendo ad un ritmo accelerato e si pensa possano collassare sopra una certa soglia di riscaldamento, portando all’innalzamento del livello dei mari anche di diversi metri. Altri elementi a rischio e non facilmente prevedibili riguardano la biosfera – dalle grandi foreste pluviali alle barriere coralline e altri ecosistemi marini – già fortemente minacciata dalla distruzione diretta degli habitat naturali e dall’insostenibile prelievo di risorse (Armstrong et al. 2022).

Se da un lato l’evidenza sperimentale dà oggi conferme inequivocabili alla teoria del cambiamento climatico di origine antropica, togliendo terreno alle teorie negazioniste, dall’altro è ormai evidente come l’aumentata consapevolezza non abbia finora portato delle azioni concrete all’altezza della gravità della situazione. Ne è una prova il fatto che in 28 anni di COP – la Conference of the Parties della UNCCC (conferenza ONU sui cambiamenti climatici) – ce ne siano voluti ben ventuno per arrivare ad una dichiarazione formale dell’obiettivo di limitare il riscaldamento a 1.5°C (o “ben al di sotto di 2°C”, COP21 Paris Agreement) mentre solo all’ultimo incontro, la COP28 di Dubai, i combustibili fossili sono stati nominati come causa del problema, con il vago impegno di “transition away from fossil fuels”. Più grave delle (mancate) parole, il percorso delle COP non è stato in grado di implementare dei vincoli stringenti di riduzione delle emissioni a livello globale, limitandosi ad alcune iniziative di dubbia efficacia (ad esempio, i mercati di carbonio) ed affidandosi agli impegni non vincolanti dei singoli paesi, peraltro ad oggi in gran parte non rispettati.

Secondo il Climate Action Tracker, considerando l’effetto delle azioni e policies finora implementate dai singoli governi, la stima dell’aumento della temperatura media globale a fine secolo è intorno a 2.5-3°C. In un recente sondaggio del Guardian, che intervistava centinaia di scienziate/i che hanno partecipato alla scrittura dei report dell’IPCC, emerge che la gran parte è estremamente pessimista sul fatto che si riesca a contenere il riscaldamento entro 2 o 2.5°C (The Guardian 2024).

Come mai una necessità evidente come quella di salvare il clima planetario da trasformazioni irreversibili e da gravi impatti sulla vita delle persone e sulla sopravvivenza degli ecosistemi naturali non porta ad una risposta tempestiva da parte dei governi? Perché dopo anni di proclami di green economy ancora le emissioni globali non accennano a diminuire ed abbondano gli investimenti fossili?

Il florilegio di casi a cui si potrebbe attingere per mostrare la perizia gattopardesca delle classi dirigenti nel giustificare ritardi e inazione è corposo e variopinto. Valga come esempio il recente intervento al Parlamento europeo di Ursula von der Leyen, in cui la presidente della Commissione Europea ha parlato a lungo di crisi climatica senza mettere minimamente in discussione l’organizzazione economica, sociale e politica che l’ha determinata nei decenni. E anzi, accompagnando il discorso su questa crisi alla necessità di aumentare le spese militari in vista del ruolo di primo piano dell’Unione Europea nella guerra in Ucraina. Un annuncio che svela come, nel cilindro magico delle classi dirigenti, i proclami verdi possano combinarsi perfettamente con il massiccio sostegno a uno dei settori più inquinanti e distruttivi come è appunto quello militare, e come la logica della guerra e della competizione prevalga oggi su quella del dialogo e della cooperazione.

Comprendere le origini della crisi

Per capire come siamo arrivati a questo punto, può essere utile ripercorrere alcuni eventi degli ultimi secoli. Al di là delle discussioni su quale sia il termine più adatto per descrivere l’epoca di profonde alterazioni che stiamo vivendo, è indubbio che l’avvento del sistema capitalistico abbia segnato una decisiva accelerazione nel processo di trasformazione umana del pianeta. Tale sistema comincia a imporsi su ampia scala a partire dagli inizi del sedicesimo secolo grazie alla conquista e al saccheggio del continente americano e alla privatizzazione delle terre comuni tramite le recinzioni (enclosures). Questa accumulazione primitiva, per dirla con Karl Marx (1867), ottenuta per mezzo di espropriazioni e azioni militari, consente dapprima l’affermazione globale del capitalismo mercantile e poi, grazie all’introduzione dei combustibili fossili, del capitalismo industriale.

Il meccanismo di fondo del modo di produzione capitalistico è stato ben descritto ed è piuttosto chiaro nei suoi passaggi costitutivi: estrarre risorse dalla natura, metterle a frutto tramite il lavoro, produrre beni e servizi e trasformarli in merce (la forma necessaria allo scambio), generare profitti, reinvestire il capitale accumulato in nuove attività che consentano un ritorno sugli investimenti. Tuttavia, questa linearità non dice nulla sul procedere contraddittorio che si cela dietro il processo. L’accumulazione di capitale avviene infatti modificando a fondo l’ambiente e la società, generando conflitti per l’accaparramento delle risorse, sperequazioni e alterazioni degli ecosistemi. Nel processo di valorizzazione del capitale, gli elementi naturali entrano come una forza pressoché gratuita: la loro illimitata riproducibilità, la loro ampia disponibilità da mettere a profitto in un processo di crescita continua sono i presupposti che guidano lo sviluppo degli ultimi secoli e l’ideologia che lo sostiene.

Le trasformazioni sociali e territoriali che avvengono dal sedicesimo al diciannovesimo secolo, in Europa e nelle colonie conquistate, riflettono bene questo processo. Già a fine ‘700, ad esempio, il geografo e naturalista Alexander von Humboldt descrive gli effetti delle monocolture coloniali sugli ecosistemi e sui suoli tropicali, sottolineando come allo sfruttamento massiccio e scriteriato della natura si accompagni il crudele sfruttamento delle comunità native e della manodopera schiavizzata deportata dal continente africano (Von Humboldt 2014). Qualche decennio più tardi, Karl Marx e Friedrich Engels ricostruiscono la storia di saccheggio e spoliazione che guida l’affermazione del capitalismo, e riconoscono un aspetto chiave del nuovo modo di produzione: l’aumento esponenziale del metabolismo economico e sociale (vale a dire, dello scambio di energia e materia tra società umane e ambiente naturale), che ha condotto a una progressiva frattura dell’equilibrio tra attività economica e capacità di rigenerazione naturale (K. Saïto 2023). Questo nucleo di intuizioni identifica una delle dinamiche di fondo del sistema capitalistico e porta a un’ulteriore conclusione: dato che i processi di valorizzazione avvengono tramite il prelievo crescente di elementi naturali e tramite una sottrazione non remunerata di parte del lavoro umano, più questi fattori sono disponibili a basso costo, a buon mercato, maggiori e più rapidi sono i profitti e l’accumulazione di capitale (Moore 2017). Comprimere i costi del lavoro e dell’estrazione di risorse dalla natura, accelerandola oltre i tempi di rigenerazione ecosistemica, divengono così elementi chiave per imporsi in uno scenario economico sempre più competitivo e globale. E questa tendenza appare come un aspetto irriducibile e necessario dello sviluppo economico capitalistico.

L’introduzione dei combustibili fossili a partire dal diciannovesimo secolo rafforza questa tendenza, consentendo al tempo stesso di sfuggire a uno dei vincoli propri dell’evoluzione di Homo sapiens: quello che lega l’energia utilizzabile per le attività umane a una serie di limiti biofisici come la disponibilità di lavoro umano e animale e la fertilità naturale dei suoli. Grazie a un enorme rilascio di energia esosomatica (vale a dire di energia non generata dagli organismi che la utilizzano, in questo caso originata dalla trasformazione chimica di sedimenti di organismi nelle profondità terrestri), infatti, i combustibili fossili spingono la macchina industriale ben oltre i limiti precedenti, favorendo una rapida estensione planetaria dei mercati capitalistici. I nuovi mezzi di trasporto consentono alle potenze europee di raggiungere ogni angolo del globo. La ricerca di risorse naturali e manodopera a buon mercato agevola nuove imprese coloniali, portando alla conquista del continente africano e di quello asiatico.

Questa frenesia ha conseguenze precise.  Si consolida, ad esempio, una divisione iniqua del lavoro a livello internazionale che vede da un lato, in una posizione egemone, le potenze imperiali con il proprio sviluppo industriale e militare e dall’altro, territori sottomessi che fungono da riserve di materie prime e manodopera a basso costo. La ricerca di queste riserve, essenziali per la produzione di merci e di valore, comporta l’affermazione di un aumento delle tensioni tra le potenze, che non di rado deflagrano in guerra aperta. E poi, in virtù di queste conquiste, si estende in tutto il globo un modello di prelievo ambientale sempre più accelerato che vede nella natura un serbatoio infinito di risorse a cui attingere per assicurare i cicli di riproduzione capitalistica. La storia del ventesimo secolo, fino ai giorni nostri, conferma queste tendenze. I cambiamenti climatici, la massiccia diminuzione della biodiversità, l’alterazione dei cicli biogeochimici da cui dipende la vita sul pianeta sono gli effetti sempre più tangibili di un sistema fondato sulla crescita perpetua, sulla competizione e sul massiccio prelievo ambientale, che opera secondo dinamiche lineari in un sistema chiuso come quello terrestre, fondato invece su dinamiche circolari, mirate all’autoconservazione e alla stabilità complessiva. Mai come oggi, quindi, i concetti di “metabolismo” e di “frattura metabolica” sono utili per intendere la contraddizione insanabile tra riproduzione economica e rigenerazione ambientale. E anche per smascherare, dati alla mano, molte illusioni alimentate dall’establishment capitalista.

Consideriamo, a questo proposito, un tema centrale nel dibattito odierno, ovvero la sfida di conciliare crescita economica, contrasto al riscaldamento globale e salvaguardia della biosfera. Un’analisi approfondita dei dati rivela che il disaccoppiamento tra crescita economica e impatto climatico e ambientale non si è mai verificato. Le riduzioni registrate negli impatti di alcuni paesi ad alto sviluppo industriale e tecnologico sono state solo in parte il risultato di miglioramenti nell’efficienza dei processi di produzione, e perlopiù esse sono riconducibili alla delocalizzazione delle produzioni più inquinanti ed energivore nei paesi poveri (Vogel e Hickel 2023).

Questa asimmetria di fondo ci riporta in maniera diretta al problema delle sperequazioni. La gerarchia sociale e la divisione del lavoro su scala internazionale, costruite nei secoli grazie alle conquiste coloniali e ai regimi imperialisti, si riflette con lineare precisione sulle responsabilità e le ricadute relative alla crisi ecologica in corso (Hickel et al. 2022). Solo per quel che riguarda le emissioni di gas climalteranti, ad esempio, la letteratura scientifica più recente conferma enormi differenze di responsabilità, denunciando una situazione in cui il 10% del pianeta inquina circa per un 50% e il 50% per un 10%. Le stesse percentuali contrassegnano grosso modo anche le dinamiche all’interno delle singole nazioni, con un contributo modesto dei ceti popolari rispetto a chi ha redditi più elevati. Spicca inoltre la responsabilità dell’1% più ricco del pianeta, che contribuisce con stime che vanno dal 19 al 22% delle emissioni totali (Chancel 2022).

Questi dati evidenziano come le alterazioni della biosfera e del clima, i cui effetti si stanno abbattendo con maggiore violenza proprio su coloro che meno vi hanno contribuito, possano essere comprese solo nel percorso storico e nella struttura socio-economica e politica che le hanno determinate. Se il sistema capitalistico si è imposto a partire da una duplice separazione – tra umanità e natura e tra lavoro e controllo dei mezzi di produzione -, da precise gerarchie locali e globali, e dall’affermazione di un orizzonte di desiderio mirato esclusivamente al consumo di merci, ogni proposta finalizzata a costruire una società meno distruttiva dovrà operare su tutti questi fronti per avere ragione.

Modelli economici e proiezioni climatiche 

I report IPCC (2023), sono ampiamente riconosciuti come la miglior sintesi sullo stato del clima e la sua evoluzione futura.  È opportuno notare che questi documenti non rappresentano solo uno strumento ad uso della comunità scientifica accademica, ma sono diventati di riferimento per il movimento climatico europeo in particolare a partire dal 2018 (prima fase dei Climate strikes, per intendersi), creando un punto di contatto tra movimenti sociali e rappresentanti della comunità scientifica. Sul significato di questi report, la loro storia, la loro attuale configurazione, pregi e difetti, rimandiamo a testi di altri autori (Tanuro 2024; Redazione di Monthly Review 2021). 

Il nostro ragionamento muove da una critica radicale degli scenari di sviluppo socio-climatico che si trovano all’interno dei report IPCC, gli SSPs (“Traiettorie socio-economiche condivise”). I report IPCC, infatti, non si limitano a descrivere lo stato dell’arte della crisi climatica, ma ne valutano gli impatti, gli strumenti di adattamento e provano a suggerire soluzioni tecniche e percorsi per la mitigazione ed il superamento della crisi. Quest’ultima parte, sulla quale vogliamo concentrarci qui, è quella naturalmente più esposta a condizionamenti ideologici e dove la pressione di “stakeholders” e di ”policymakers” (ovvero potere economico e politico) si fa più forte.

Gli SSPs definiscono 5 scenari di sviluppo socio-economico che risultano in 5 percorsi diversi di emissione di gas serra, dalla green-road (SSP1, meno impattante, con prospettiva di contenimento delle anomalie di temperatura globale entro 1.5°C) alla Fossil-Fueled Highway (SSP5, con emissioni in crescita, con prospettiva di raggiungimento dei 5°C di anomalia per fine secolo). Tali scenari sono ciò a cui si fa quasi sempre riferimento quando si parla di previsioni di evoluzione delle emissioni di gas serra. Il problema è che questi scenari non hanno in realtà alcun carattere predittivo. Infatti, più che di scenari futuri si tratta di narrative costruite a tavolino a partire da come potrebbero svilupparsi alcuni macro-indicatori (evoluzione demografica, disuguaglianze, politiche green, livello di istruzione…).

 

Fig 1. IPCC AR6: I 5 scenari di emissione di gas serra nel corso di questo secolo (a sinistra) ed il corrispondente riscaldamento medio a livello globale (a destra).

Gli scenari assumono, senza esplicitarla, una visione parziale e situata: di fatto, si limitano a descrivere, in astratto, cinque percorsi di sviluppo nell’alveo di una economia di mercato capitalista in crescita, con una richiesta energetica globale in crescita. Gli scenari SSPs si manifestano quindi come un importante strumento ideologico, che cristallizza i rapporti di forza esistenti nella società. 

Sussistono dubbi sul realismo di tali scenari, spesso fondati su assunzioni arbitrarie e criticabili. Per esempio, nessuno di questi scenari prende in considerazione la possibilità che PIL e consumo di energia possano diminuire, perlomeno nei paesi ricchi.  La prospettiva della “green road” (SSP1) ha ben poco a che vedere con la prospettiva della transizione dal basso sostenuta dai movimenti ecologisti. Eppure non è difficile comprendere che il modo di produzione ha un ruolo di primaria importanza sulle emissioni. Un’economia mirata in primo luogo all’accumulazione di capitale e alla generazione di profitti, è intrinsecamente caratterizzata da una dinamica delle emissioni molto diversa da quella di un’economia che ha come obiettivo primario il soddisfacimento dei bisogni sociali, ivi inclusa la rigenerazione della biosfera. Questa variabile, quella dell’organizzazione sociale e produttiva, non è presa in considerazione dentro questi scenari. Anche da parte di chi guarda con approccio “tradizionale” alla questione, è stato dichiarato che gli scenari SSPs “creano una percezione di conoscenza e precisione che è illusoria, e può ingannare i policymakers nel pensare che le previsioni generate abbiano una qualche legittimazione scientifica” (Pindyck 2017).

Un altro elemento che vogliamo evidenziare è la critica ad un atteggiamento positivista rispetto allo sviluppo di energie green all’interno di questo apparato economico. Critichiamo in particolare l’approccio riduzionista secondo cui il termine di risoluzione della crisi climatica sta nella sola espansione delle infrastrutture rinnovabili. Innanzitutto, dovremmo ribaltare il termine della questione: la crisi climatica non è generata dallo scarso utilizzo di energie rinnovabili ma dall’uso su larga scala dei combustibili fossili. L’ultimo report IPCC afferma che nel decennio scorso (2010-2019) il costo di mercato delle energie rinnovabili è arrivato a livelli di competitività con le energie fossili, al punto che le infrastrutture rinnovabili, in termini di quantità globali, sono cresciute esponenzialmente. Da questo punto di vista, il tipping point tecnologico dovrebbe essere stato superato (Cini 2023), aprendo la strada ad una accelerazione dello sviluppo dell’utilizzo di fonti rinnovabili, in grado di soppiantare la vecchia infrastruttura fossile. Eppure, sempre nello stesso decennio, le emissioni di CO2 non si sono ridotte, ma sono aumentate, in conseguenza dell’aumentato utilizzo di combustibili fossili. Questo suggerisce un certo grado di compatibilità tra sviluppo di energie rinnovabili e di infrastruttura fossile, al contrario di quello che potremmo intuitivamente credere. La transizione “green” del mercato è un processo lento, che rischia di spingerci verso scenari ad alto rischio. Ad oggi questa non ha ridotto le emissioni di CO2, ne sta solamente rallentando l’aumento.

Non vogliamo qui speculare oltre sul motivo di questo accoppiamento tra capitale fossile e capitale green. Annunciamo che tale questione, sulla quale rivolgiamo una sincera apertura al confronto con chiunque fosse interessato, sarà oggetto di successivi approfondimenti.

Conclusioni

Il nostro auspicio è che quanto scritto fino ad ora serva a stimolare un dibattito radicale attorno al tema delle cause intime della crisi ecologica. Lo scopo di un tale dibattito deve essere quello di fornire strumenti di analisi profonda sul rapporto esistente tra la società capitalista e la crisi ecologica. Proviamo adesso ad offrire alcuni spunti di riflessione strategica. Se con l’attuale livello di approfondimento sulle cause della crisi è difficile definire strategie efficaci, non è comunque consentito abbandonarsi ad uno sterile attendismo. Riteniamo in prima battuta opportuno evidenziare l’opportunità di portare il dibattito pubblico e scientifico oltre i tecnicismi, rendere manifesto il risvolto sociale di questa crisi sul piano delle ricadute materiali (si pensi alle alluvioni, alle ondate di calore per chi è costretto a lavorare, al degradamento delle condizioni di vita, e così via), e individuare nell’elemento politico del controllo delle attività produttive e della pianificazione energetica il vero elemento di svolta per far fronte alla crisi climatica ed ecologica. Oltre a ciò, mai come oggi, una prospettiva radicale che rimetta in dialogo pensiero scientifico e pensiero politico appare necessaria ed auspicabile. “Fare luce sull’intreccio tra crisi ecologica, emergenza climatica e dinamiche di riproduzione economica e sociale significa mettere in discussione la rigida separazione tra i saperi che è propria del capitalismo” (Fantini 2023). Al di là delle parole d’ordine, è imprescindibile incidere nel campo della mobilitazione sociale, ad esempio a partire dal caso GKN. Il processo per smascherare la finta transizione raggiunge una forma completa nel momento in cui vengono individuati dei punti di ricaduta, delle leve su cui fare forza. Quale migliore possibilità, per una comunità scientifica che voglia emanciparsi dal ruolo di Cassandra della crisi ecologica, di intervenire direttamente a supporto di chi ha energie, volontà, e occupa una posizione strategica per affermare una reale transizione ecologica? Crediamo che l’esperienza storica della lotta GKN debba essere anche la base di una riflessione su nuove proposte strutturali per la convergenza tra movimento ecologista e sindacale.

Andrea Fantini, Federico Fabiani e Matteo Cini

Questo articolo fa parte del numero 8, febbraio 2025, della rivista Egemonia.

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Bibliografia

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Nato nel 1995 a Firenze, dove ha studiato Fisica e ha militato nei collettivi universitari fiorentini. Dal 2022 dottorando a Bologna in Dinamica del Clima, in particolare si occupa di Tipping Points climatologici.