La manovra tariffaria di Donald Trump ha scatenato il panico nei mercati di tutto il mondo, ed ha assestato uno dei colpi più forti al sistema di libero scambio globale da quando ha preso forma nella sua attuale incarnazione, a forte trazione dell’attività sul mercato finanziario. Tale spazio ha visto la scomparsa di miliardi di dollari dopo la decisione del presidente americano di imporre tariffe su ogni paese che detenesse un deficit commerciale con gli USA, introducendo un ulteriore elemento di instabilità a contraddistinguere una decade già turbolenta, mentre approccia alla sua metà. In questo scenario caotico, si possono intravedere le ricadute sull’economia del mondo delle decisioni effettuate per tutelare l’egemonia della potenza imperialista a livello economico e politico. Fare luce sulla situazione economica è necessario per comprendere la matrice delle decisioni che verranno prese, dai potentati economici del mondo quanto da chi vi si oppone, in mesi che si preannunciano densi di cambiamenti nel suo assetto organizzativo. Il nostro compagno Esteban Mercatante, scrivendo sul settimanale argentino Ideas de Izquierda (curato dalla redazione de La Izquierda Diario, giornale argentino della rete internazionale di cui La Voce delle Lotte è espressione italiana), fa luce sulle prospettive lungo le quali si muove Trump, e quale sia la logica che sottende una manovra tipicamente roboante e di ampia portata.
Donald Trump ha dato fede alla sua minaccia di imporre dazi a tutto il mondo, a tassi più alti del previsto, e i suoi altri partner commerciali, come la Cina, hanno risposto allo stesso modo. Il presidente americano sta mantenendo la promessa di fare tutto il possibile per sovvertire le condizioni per cui gli Stati Uniti hanno perso la propria posizione di predominio sull’economia mondiale; ma queste sono le stesse coordinate che hanno permesso ai magnati statunitensi di estendere i tentacoli dell’estrazione di plusvalore in tutto il mondo come mai prima, e perciò si rifiutano di rinunciarvi. Il panico sui mercati, che si riflette nel crollo dei valori delle azioni e delle materie prime, esprime lo sconcerto per l’incursione in un territorio inesplorato.
Il 2 aprile, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha attuato le tariffe generalizzate che aveva annunciato settimane prima. I Paesi meno colpiti pagheranno il 10 % per l’ingresso dei loro prodotti nel mercato statunitense. Le tariffe applicate raggiungono quote del 50%, secondo il criterio di rispondere in modo reciproco alle barriere tariffarie che gli altri Paesi presumibilmente applicano all’importazione di prodotti dagli USA. I Paesi dell’UE, partner storici degli USA, dovranno affrontare tariffe aggiuntive del 20 %, mentre per la Cina saranno del 34 % (ora, 50%, ndr.). Queste tariffe si aggiungono a quelle già in vigore.
I mercati, già nervosi per le misure di Trump dalla fine di febbraio, sono entrati nel panico con la conferma della linea protezionistica del Presidente degli Stati Uniti.
Cosa cerca l’amministrazione Trump con la sua politica tariffaria? Cosa può ottenere e quali effetti produrrà nella sua scia?
Una situazione senza precedenti
Con i dazi di Trump, l’economia statunitense avrà il livello di tariffe più alto degli ultimi 130 anni. Durante la svolta protezionistica degli anni ’30, che è stata uno dei fattori determinanti dell’inversione della globalizzazione economica – insieme alle svalutazioni competitive delle valute e alle devastazioni della depressione iniziata nel 1929 – le tariffe raggiunsero livelli medi più bassi di quelli registrati dal 2 aprile negli Stati Uniti.
La formula con cui sono state prodotte le aliquote relative ai singoli Paesi non è direttamente correlata alle imposte, ai sussidi o alle barriere non tariffarie che essi applicano alle esportazioni statunitensi. La sua determinazione è molto più semplice e arbitraria: si ottiene dividendo la portata del deficit commerciale degli Stati Uniti con ciascun Paese per quella delle importazioni statunitensi da quel Paese, il tutto diviso per due. La tariffa minima del 10% si applica a tutti gli scambi di beni – i servizi non sono coperti dalle tariffe applicate – con alcune eccezioni, come Russia, Bielorussia, Cuba e Corea del Nord. Anche i territori abitati esclusivamente da pinguini, come le isole Heard e McDonald, non sono stati risparmiati dalla furia tariffaria di Trump. Messico e Canada non figurano nell’elenco dei Paesi colpiti, ma le spedizioni di automobili, acciaio e alluminio provenienti da questi Paesi saranno colpite dalle tariffe specifiche entrate in vigore giovedì scorso.
L’arbitrarietà della formula rende difficile per i Paesi annullare le “tariffe reciproche” che non stanno applicando. L’economista Michael Roberts lo spiega con l’esempio del Vietnam:
“Gli Stati Uniti hanno un deficit di 123 miliardi di dollari con il Vietnam, da cui importano beni per 137 miliardi di dollari. Si ritiene quindi che il Vietnam abbia barriere commerciali equivalenti a una tariffa d’importazione del 90%. La formula statunitense prevede l’applicazione di una tariffa reciproca pari alla metà (45%) per dimezzare il deficit bilaterale. Problema: il Vietnam non ha una tariffa del 90% sulle esportazioni statunitensi, quindi non può evitare una riduzione delle vendite agli Stati Uniti accettando di ridurre le proprie “tariffe” sulle esportazioni statunitensi.”
Colpire per negoziare?
“Il Presidente Trump vede le tariffe come una fonte di potere contrattuale per concludere accordi. È più facile immaginare che, dopo una serie di tariffe punitive, i partner commerciali come l’Europa e la Cina diventino più ricettivi a qualche tipo di accordo monetario in cambio di riduzioni tariffarie.”
L’articolo è stato scritto nel novembre dello scorso anno da Stephen Miran, un economista che da marzo presiede il Council of Economic Advisers della Casa Bianca. L’autore è tra coloro che sostengono l’uso dei dazi come arma per costringere gli altri Paesi ad accettare un nuovo sistema finanziario a la “Bretton Woods”. Per Miran, la forza del dollaro, conseguenza del suo ruolo di valuta di riserva mondiale, fortemente richiesta dagli investitori e dalle banche centrali di tutto il mondo, deve essere abbassata per attirare nuovamente negli Stati Uniti gli investimenti dei settori economici produttori di beni.
In modo simile, Scott Besset, nominato Segretario al Tesoro, ha previsto l’anno scorso un importante “riallineamento economico, qualcosa di equivalente a una nuova Bretton Woods“. Besset ha affermato che se da un lato l’abbandono del sistema commerciale internazionale da parte degli Stati Uniti sarebbe “un grave errore strategico ed economico”, dall’altro vi è l’urgente necessità di “politiche volte a correggere le cause degli squilibri nell’economia internazionale”, privilegiando “interventi a livello macro, come tariffe ad ampio raggio”.
L’applicazione di tariffe, se questo fosse il piano di Trump, non sarebbe l’obiettivo finale, ma un mezzo per modificare, a favore degli USA, le regole del sistema economico mondiale. Se così fosse, il caos attuale sarebbe guidato da obiettivi molto concreti, non tanto dall’implementazione di barriere commerciali durature che, se dovessero persistere nel tempo, potrebbero turbare gravemente l’integrazione economica mondiale e aumentare i costi in tutte le catene produttive globali.
Se questo fosse l’obiettivo, si tratterebbe di un tentativo di ripetere quanto accaduto negli anni ’80 con gli Accordi del Plaza. Chiamati così per il nome dell’hotel in cui si svolsero i colloqui, essi portarono all’impegno da parte di Giappone e Germania, i maggiori concorrenti economici degli Stati Uniti, che erano anche stretti partner per la sicurezza, di perseguire politiche volte a rafforzare il valore delle loro valute rispetto al dollaro. Gli attuali funzionari dell’amministrazione fantasticano su un “accordo di Mar-a-Lago” in cui, per uscire dalla trappola delle tariffe reciproche, i principali concorrenti e partner commerciali degli Stati Uniti accettino di contribuire a un dollaro più basso. Ma non si tratta solo del valore della moneta; l’obiettivo è quello di negoziare un deprezzamento del dollaro rispetto alle altre valute senza compromettere la sua indiscussa preminenza come valuta di riserva mondiale, che è ciò che conferisce agli Stati Uniti un’impareggiabile capacità di prendere decisioni sulla propria economia (e su quelle del resto del mondo) senza i vincoli che devono affrontare gli altri Paesi. Un nuovo sistema monetario potrebbe emergere se altri Paesi accettassero di agganciare le loro valute al dollaro, a livelli di parità più alti di quelli attuali.
Per Miran, “se il dollaro potesse essere indebolito per bilanciare il commercio, non avremmo così tanti deficit commerciali. Non avremmo molti dei problemi che le tariffe e altre politiche cercano di risolvere, perché le esportazioni statunitensi sarebbero più competitive a livello globale e non subiremmo così tante truffe da parte di altri Paesi. Ergo, la guerra dei dazi diventerebbe superflua e tutto potrebbe tornare alla normalità, con tariffe più basse, una volta che gli Stati Uniti avranno costretto il resto del mondo a sostenere la competitività americana. Il caos delle ultime settimane sarebbe quindi solo momentanee, e da esso emergerebbe un nuovo ordine favorevole alla rinascita della produzione statunitense.
La questione è se oggi gli Stati Uniti siano abbastanza forti da imporre l’accettazione di questo cambiamento delle regole del gioco, destinato a sostituire unilateralmente quelle prevalenti nell’ambito dell’ “ordine basato sulle regole” precedentemente costruito dallo stesso Stato americano per garantire le giuste condizioni per l’espansione del suo capitale nel mondo. Indubbiamente, tutti i Paesi vorranno che le loro aziende mantengano un accesso vantaggioso all’ambito mercato statunitense. Ma oggi i Paesi con cui deve negoziare non sono integrati in modo subordinato negli schemi di sicurezza degli Stati Uniti, come lo erano la Germania e il Giappone negli anni Ottanta. Trump deve sedersi al tavolo con la Cina, una potenza in ascesa con cui gli Stati Uniti rivaleggiano con crescente aggressività, e anche con un’Unione Europea che, con il ritorno di Trump, sta accelerando i piani per cercare di ottenere l’autonomia militare dagli Stati Uniti. Il vantaggio di mantenere l’accesso al mercato statunitense è sufficiente a bilanciare i costi per questi Paesi, così come per i BRICS – di cui curiosamente solo la Russia ha evitato l’onere dei dazi, così come la Corea del Nord – e altri blocchi, di rimodellare lo schema monetario a vantaggio degli Stati Uniti?
Ciò che è certo, al di là degli schemi teorici su cui si muovono gli economisti di Trump per immaginare un mondo in cui gli Stati Uniti si reindustrializzano, mantenendo il posto preminente di moneta di riserva per il dollaro americano, è che non esistono alchimie monetarie sufficienti ad attirare la produzione di massa di beni negli Stati Uniti. Così come gli accordi del Plaza hanno momentaneamente aiutato a bilanciare i conti con l’estero degli Stati Uniti e a riconquistare alcune quote di mercato dai loro partner, ma non hanno impedito le ristrutturazioni economiche che hanno spinto le industrie ad abbandonare gli Stati Uniti per delocalizzare nei Paesi a basso costo, i dazi di Trump, anche qualora riuscissero ad essere persuasivi nel strappare concessioni sostanziali sulla valuta, non riporteranno negli Stati Uniti i posti di lavoro persi dalle aziende che hanno delocalizzato per produrre a costi inferiori. Come disse il defunto CEO di Apple Steve Jobs al Presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel 2011, quando gli fu chiesto cosa sarebbe stato necessario per produrre l’iPhone sul suolo americano: “Quei posti di lavoro non torneranno”.
La politica del “colpo su colpo” e l’incertezza economica
Resta da vedere se la sequenza virtuosa di “colpire per negoziare” immaginata dall’amministrazione Trump abbia una qualche parvenza di realtà. Per ora, nel mezzo del disordine globale, Trump ha introdotto altro caos, e questo darà forma alla congiuntura. La stampa liberale che ha esortato l’UE, la Cina e altri Paesi interessati a non pestare il bastone delle ritorsioni e a rimanere impegnati nell’economia integrata potrebbe non avere abbastanza eco. I dazi di Trump sono stati seguiti dall’annuncio della Cina di imporre la stessa tariffa del 34% sulle merci statunitensi.
Da mercoledì, i mercati azionari si trovano in una fase di crollo, la stessa che sta prevalendo in molti cicli dalla fine di febbraio. La distruzione del valore dei mercati azionari dai picchi massimi è di circa il 20%.
Il capo della Federal Reserve, Jerome Powell, ha avvertito venerdì che i dazi approvati da Trump sarebbero stati “più alti del previsto”, e quindi le loro conseguenze economiche, come l’aumento dell’inflazione e il rallentamento della crescita, saranno probabilmente più gravi. “Ci troviamo di fronte a prospettive molto incerte, con rischi elevati sia di aumento della disoccupazione che dell’inflazione”.
Il problema per la Fed è che, per stimolare l’attività economica e combattere la disoccupazione, dovrebbe stimolare l’espansione monetaria, abbassando i tassi di interesse; mentre, per affrontare la minaccia di una ripresa dell’inflazione, dovrebbe applicare una politica monetaria restrittiva. Dopo gli annunci, si sono rafforzate le previsioni di declino economico per quest’anno, che alcuni istituti collocano tra l’1 e il 2%, accompagnate da un aumento dell’inflazione che potrebbe raggiungere il 4 o il 5% annuo. I margini di azione dell’ente responsabile della politica monetaria si stanno restringendo, nella confusione delle turbolenze causate da Trump.
Come osserva Michael Roberts, il peso del commercio estero nell’economia statunitense è oggi tre volte superiore a quello che aveva nel 1929, quando fu varato lo Smoot-Hawley Act: le importazioni raggiungeranno il 15% del PIL nel 2024, rispetto al 6% circa del 1929. La produzione e le vendite nazionali sono molto più legate all’afflusso di questi beni importati rispetto a 90 anni fa: una dinamica in contrasto con l’idea che le tariffe incidano solo sull’attività economica di altri Paesi che vendono agli Stati Uniti. Pertanto, le implicazioni sul PIL della guerra commerciale potrebbero essere molto più ampie delle stime sopra riportate.
Territorio sconosciuto
La situazione è caotica. Non possiamo escludere che sia il preambolo dell’obiettivo dell’amministrazione Trump di forzare un negoziato. Tuttavia, anche se così fosse, la governance globale è già entrata in un territorio inesplorato, con nuove regole. Le ramificazioni di questo cambiamento saranno profonde per i rapporti di forza tra potenze.
Né la guerra dei dazi, né l’eventuale imposizione da parte degli Stati Uniti di nuove regole per il commercio e il sistema monetario che alcuni funzionari di Trump immaginano di poter ottenere in cambio di un’inversione di rotta, cambieranno radicalmente il corso del declino che sta interessando gli Stati Uniti. Proprio come le misure attuate dopo il “Pivot to Asia” di Obama, e approfondite da Trump, non sono riuscite a rallentare la crescita dell’influenza della Cina nel mondo. Contrariamente alle loro intenzioni, come ha avvertito The Economist, le decisioni di Trump potrebbero in realtà elevare la posizione della Cina piuttosto che quella degli Stati Uniti.
Ciò che viene confermato dalla scure di Trump sul commercio mondiale è la decisione della grande potenza, che ha svolto un ruolo chiave nel garantire l’integrazione economica, di rimettere tutto in discussione. Questo fatto aggrava la crisi dell’esistente, senza che si schiarisca la sagoma di ciò che prenderà il suo posto. Tale elemento, l’esacerbazione della rivalità tra Stati Uniti e Cina e gli scenari di guerra aperta configurano una situazione che potrebbe essere chiaramente inquadrata come una di caos sistemico, di cui Trump è diventato uno dei principali ingegneri.
Esteban Mercatante

Esteban Mercatante
Economista. Membro del Partido de los Trabajadores Socialistas (PTS) d'Argentina. Autore dei libri "El imperialismo en tiempos de desorden mundial" (2021), "Salir del Fondo. La economía argentina en estado de emergencia y las alternativas ante la crisis" (2019) e "La economía argentina en su laberinto. Lo que dejan doce años de kirchnerismo" (2015). Scrive per il giornale online La Izquierda Diario e per la rivista Ideas de Izquierda.