La crisi sanitaria del Coronavirus ha fatto riaprire una piaga della società italiana, con effetti devastanti: la precarietà di tanti di lavoratori e lavoratrici per cui “restare a casa” non è così facile.


Tutti i lavoratori sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”

Ci sono i lavoratori, per esempio che possono stare a casa durante la pandemia, quelli che non possono perché la produzione non si ferma e quelli che ci stanno a discapito delle loro ferie. Ci sono anche quelli che ci stanno senza stipendio, con l’angoscia di un affitto da pagare e l’incertezza di poter fare la spesa. Si fa presto a dire #iorestoacasa, ma bisogna innanzitutto avercela una casa e poi mantenersela. E il Coronavirus, come ogni altra emergenza, ben lontano da metterci tutti sulla stessa barca, acuisce differenze sociali ben stratificate. Fra i tanti lavoratori che “sono meno uguali degli altri” ci sono anche quelli che si sono trovati fra un contratto e l’altro proprio quando l’emergenza Covid-19 è scoppiata. Fra questi si inseriscono senza dubbio i lavoratori del famoso, anche se poi cosa sia esattamente non si sa, “precariato intellettuale”. E nel precariato intellettuale ci stanno, mani e piedi, quelli della ricerca, ovvero tutto il personale non strutturato che lavora in accademia: assegnisti di ricerca, ricercatori determinati, “teaching assistants”, collaboratori a progetto.

Queste figure hanno in comune una cosa, appunto, la precarietà. Precarietà che si traduce in contratti mensili o semestrali al massimo -nel caso dei collaboratori – fino a contratti di tre anni (pochi, ma ci sono) per alcuni assegni di ricerca e per alcuni ricercatori. È vero però che la maggior parte di questi precari ha contratti annuali, che in alcuni casi possono essere rinnovati -a seconda di quali fondi si tratti, se istituzionali o aggiudicati tramite bandi esterni e a seconda dell’istituto specifico – come no. Tutto ciò è aleatorio e, ovviamente, indipendente dalle capacità o, per usare una parola cara alla retorica neo-liberista, del merito. Nel caso in cui l’assegno, per esempio, non possa essere rinnovato automaticamente, ogni assegnista si dovrà cercare altro. Se vorrà provare a restare in accademia dovrà quindi cercare altri bandi, partecipare ad altri concorsi. E se questo iter di cercare e partecipare ai bandi ci si trova a farlo proprio durante il blocco imposto dalla pandemia? In questo caso, ça va sans dire, tocca aspettare. L’unica tutela è la disoccupazione, iniziare la pratica della diss-coll, che garantisce un assegno mensile per la durata della metà del contratto di lavoro con una percentuale variabile. Per esempio, se l’assegno ha avuto durata di un anno, l’assegno di disoccupazione sarà corrisposto per i primi tre mesi al 75%, poi al 35%. Una battaglia anche questa venuta dal basso, nel 2017, che ha portato all’autocostituzione del primo sindacato dedicato ai dottorandi e agli assegnisti di ricerca. Una misura importante in primis dal punto di vista simbolico. Sì, perché si riconosce, anche se parzialmente, storcendo il naso e con poco entusiasmo (poiché al di là della disoccupazione non ci sono le altre tutele come le ferie, la malattia o la maternità) a chi inizia il percorso accademico la dignità di persona lavoratrice. Ma anche importante dal punto di vista materiale perché fornisce un cuscinetto che rallenta la fuoriuscita di una parte di accademici che di stare mesi senza lo stipendio non se lo possono permettere. Un meccanismo di selezione, in questo caso, fatto sulle condizioni sociali di partenza: la possibilità di continuare le proprie ricerche anche senza redditi provenienti dal proprio lavoro.

 

La disoccupazione e il precariato accademico sono ancora invisibili

Tante delle attività di ricerca possono essere condotte in smart working, così come la didattica universitaria. Ecco perché non è difficile per il precariato accademico continuare a lavorare da casa adesso che vi è l’imposizione. La realtà però è che, Corona o meno, anche senza contratto assegnisti e ricercatori avrebbero comunque lavorato da casa. Paradossalmente il carico di lavoro per i precari della ricerca è più grande proprio nei momenti del passaggio da un contratto a un altro. Si lavora di più dunque quando si è disoccupati. Sì perché, se si riesce a pubblicare un articolo in più, se si riesce a terminare una monografia o a proporne un’altra allora si sarà forse più competitivi al prossimo concorso. Si lavora, vecchia storia, per darsi la possibilità di lavorare, per ottenere un altro assegno che permetta di restare nel circuito un anno di più. Certo, questo vale sempre per gli stessi di prima, per chi non fa questo lavoro (solo) per passione, ma perché deve lavorare per vivere. Ed è proprio la moneta di scambio della passione che ci ha condotto in questo gioco al ribasso. Senza entrare nel merito delle politiche pubbliche che sono state messe in campo almeno dalla riforma Gelmini in poi, proviamo a ragionare sul piano personale. Nella narrazione dominante la passione per il proprio lavoro è una moneta di scambio con tutele, diritti e salari. Insomma valgono le frasi “eh, ma fai un lavoro intellettuale e ti lamenti pure”. Una frase però, questa, che dà per scontato che i precari dell’accademia siano solo persone che, tutto sommato, di essere precarie se lo possono permettere. Spoiler alert: non è così.

Insomma, quella del precariato accademico è l’ennesima contraddizione che Covid-19 fa esplodere. Non si producono situazioni nuove, certo, ma si aggravano. Il rischio di una non continuità retributiva aumenta durante l’emergenza: molti dei concorsi sono bloccati e quelli per i quali le procedure di selezione stanno andando avanti non possono garantire la data di inizio dell’assegno (e quindi del primo stipendio). Una contraddizione sorda, non certo la più visibile e forse nemmeno la più urgente. Ma pur sempre una contraddizione, che ha forti ripercussioni sulla vita personale delle tante e tanti che fanno questo lavoro non per passione, ma anche per passione. Non a prescindere da una retribuzione, ma anche per la retribuzione. Negare questo significa arrendersi a una tendenza che esiste e che l’accademia riproduce: le diverse condizioni sociali di appartenenza, che contano sempre di più nel mondo, che contano sempre di più in accademia.

Se non consideriamo fra i lavoratori anche coloro che lavorano ma non sono pagati, allora facciamo un errore: di concetto e di metodo. L’unico vaccino contro gli effetti del Corona è, ancora una volta, un reddito per tutte e tutti.

 

Carlotta Caciagli

Dottoressa di ricerca in sociologia e scienza politica, diplomata presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di trasformazioni urbane e delle relative politiche capitaliste.